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Bernini (il mio)
Innanzitutto una confidenza, riguardante uno, soltanto uno, dei molti motivi per cui, fra tutti i musei romani, la Galleria Borghese è quella che amo di più.
Tutti gli altri motivi - la sua amabile ubicazione nel verde di Villa Borghese, la riposante ragionevolezza della sua estensione (due piani e non più di venti fra sale, salo- ni e salette), infine la bellezza mozzafiato dei suoi Bernini e dei suoi Caravaggio: due artisti per la cui conoscenza una visita a questo museo è assolutamente obbligatoria - sono motivi ovvi e largamente condivisi. Ma il motivo a cui mi riferisco io è un po' più personale.
Si tratta di due piccolissimi quadri. Il primo misura appena 39 centimetri per 31; l'altro, un pochino più grande, 56 per 44. Sono due autoritratti di Gian Lorenzo Bernini, eseguiti - si suppone - l'uno intorno al 1623, quando Bernini aveva venticinque anni, l'altro dopo il 1635, quando ne aveva circa quaranta. Ignoro quale rango e quale importanza vengano attribuiti a questi due minuscoli dipinti dagli storici dell'arte. Immagino che essi ven-
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gano giudicati in tutto degni del loro autore, ma decisamente secondari e periferici nel quadro dell'opera di un artista celebrato, giustamente, soprattutto come scultore e architetto. Ma io li trovo semplicemente meravigliosi, magici, stregati,
Sono due autoritratti decisamente "romantici" (o, se volete, "protoromantici"). Nel primo, Bernini si è raffigurato come un giovane invasato, dalle guance leggermente scavate, la bella bocca severa come percorsa da un impercettibile fremito, i grandi occhi neri, spiritati, rivolti verso qualcosa di sgomentevole, come di chi stia fissando un oggetto vagamente spaventoso e insieme indicibilmente seducente, o forse qualcosa che è soltanto l'invisibile proiezione di una fatale ossessione interiore. Nell'altro, sul volto dell'artista quarantenne, i segni di quell'antica ossessione, di quell'invasamento giovanile, appaiono invece smussati non cancellati da una sorta di funesta spossatezza, da un di più di tetraggine e di amarezza, come se a quell'epoca Bernini fosse già da gran tempo, per così dire, avvezzo e rassegnato a fiutare nel proprio genio un indizio di sciagura.
Si dirà che questa è soltanto una lettura "psicologica", non meno banale che arbitraria, dei due piccoli autoritratti. E magari si aggiungerà che ciò che rende questi due dipinti storicamente e artisticamente ragguardevoli non è affatto il loro opinabile contenuto psicologico, bensì la verificabile qualità di una "tessitura" e di una "materia" in cui Bernini mostra di aver raggiunto, nell'evoluzione tecnico-formale del linguaggio pittorico, un livello pari a quello conseguito, in quegli stessi anni, dal suo coetaneo Velázquez.
Non discuto: forse è così. Resta però che ogni volta che capito in questo museo, ciò che m'induce a indugiare, ammaliato, davanti a quei due autoritratti più a lungo che davanti a tutti gli altri capolavori che li circondano da tutti i lati, è proprio il loro enigmatico - e per me inesauribile-fascino psicologico.
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A questo punto mi si obietterà che quei quadri per me sono oggetto non di un ragionato e igienico "interesse culturale", ma di un'insana mania, giacché solo una specie di fissazione può farmi scorgere in quelle due tele la più irresistibile attrattiva di un museo che del Bernini contiene, fra l'altro, le due sculture più eccelse (quella prima, prorompente affermazione del dinamismo barocco che è il suo Davide e quel prodigio di slancio lirico trasfuso nel più flessuoso e duttile dei marmi che è il gruppo di Apollo e Dafne), e in cui si possono inoltre ammirare:
⚫ il portentoso, icastico, arguto Ritratto d'uomo di Antonello da Messina;
⚫ quella suprema espressione di nitida forza raffiguratrice che è la Donna col liocorno di Raffaello; una Venere di Cranach deliziosamente ambigua, maliziosa e stravagante, col suo sghembo cappellino sulla testa, il sorriso perfidamente puerile e il tenero corpo bislungo reso ancora più invescante e malandrino dal più impalpabile e derisorio dei veli;
- una Danae del Correggio non meno leggiadra e fragrante graziosamente scomposta su un letto che s'indovina ancora caldo di amplessi;
- quelle due stupende apologie della più ricolma, morbida, dorata opulenza muliebre che sono le due tele tizianesche intitolate Amor sacro e amor profano e Venere che benda amore;
- la solenne, sfarzosa, misteriosissima Circe di Dosso Dossi;
- una squisita, dolce, trasognata Sibilla del Domenichino;
⚫ per non parlare, infine, delle sei tele - tutte strepitose - del Caravaggio esposte nella quattordicesima sala: il drammatico e possente San Gerolamo (quasi una staffilata di luce nelle tenebre); il dolce e benigno Giovane con canestro di frutta (sognante omaggio a un'adolescenza umile e mansueta); lo struggente Bacchino mala-
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to (immagine toccante di una giovinezza a un tempo in- ferma e bramosa, patita e desiderante, debilitata e nostalgica); l'inquietante San Giovanni nel deserto (aspra e pungente raffigurazione di una plebea, virulenta carnalità maschile); la spettacolosa Madonna dei palafrenieri (magistrale, sconvolgente fotogramma di un film dedicato all'intima, segreta regalità e divinità dei poveri); e infine l'atroce Davide e Golia (in cui il Bellori volle che il pittore avesse prestato il suo volto al gigante decapitato, e che resta una somma espressione di ciò che Roberto Longhi, riferendosi al gioco delle luci nel Caravaggio maturo, chiamò felicemente "il virile pessimismo dell'adombrare caravaggesco"); eccetera eccetera.
In mezzo a tanti tesori - concluderà il mio obiettore - soltanto un'incomprensibile fisima potrebbe fomentare una passione così smodata per due dipinti senz'altro pregevolissimi, ma non certo al punto da costituire le gemme d'un così ricco e abbagliante contesto.
Ma sì, la mia è un'irragionevole ubbia, un uzzolo inesplicabile, un capriccio forse radicato in chissà quale connessione inconscia. Talvolta infatti mi dico che, per un lettore fanatico dei Tre moschettieri quale io sono stato da bambino, il fascino di quei due autoritratti potrebb'essere legato a un'indelebile associazione, ovviamente agevolata dall'aura di primo Seicento in cui sono immersi i due dipinti, fra i due volti del Bernini - quello fremente di lui giovane e quello più cupo di lui più vecchio - e le figure, da un lato, dell'impetuoso D'Artagnan, dall'altro del fosco e romantico Athos. Temo, per giunta, di amare tanto quei due autoritratti anche perché nell'insieme dell'opera del Bernini, con quel loro fuoco trattenuto, mi sembrano perfettamente antitetici alla plateale demagogia della sua opera più conosciuta: quel colonnato di piazza San Pietro che a me, sempre a causa di inammissibili associazioni inconsce (vagina dentata? complesso di castrazione?), sembra purtroppo un'immane, terrificante mandibola divoratrice. Comunque sia, resta che tutte le volte che capito in questo museo...
E qui mi devo fermare. Non posso, infatti, continuare a fingere che la mia innocua mania non abbia finora incontrato altri ostacoli che il biasimo degli esperti, giacché da molto tempo ben altre sbarre le interdicono l'accesso ai suoi due piccoli oggetti di culto. Né è soltanto a me che quelle sbarre vietano il passo, ma a tutti i visitatori, sottraendo al loro sguardo non soltanto i due autoritratti berniniani, bensì tutta la quadreria (dieci sale su venti) del Museo Borghese.
Si tratta di sbarre dovute a un necessario restauro. I lavori, però, durano da ben quattro anni, e nessuno per giunta sa dire quanto dovranno durare ancora.
(1988)