sabato 18 agosto 2012

La banalità del male

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diego varini tenta pagliarani

La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto):
 non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio.

Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’). C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ha scrutato per primo fra le maglie traslucide della città che sale: il sistema cambiava pelle ma chiedeva ancora obbedienza (l’aziendalismo è un fascismo). «Tener duro sul rapporto comunicativo», segnala ab initio la peculiarità della sua posizione in seno ai novissimi: salvare la sovrapponibilità del dettato a un’esperienza misurabile sulla cosalità del mondo. Certe questioni, c’è solo un mezzo per investigarle («Poeta è una parola che non uso / di solito, ma occorre questa volta perché / respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi / nella nostra morte, ora, della morte illuminarci?»). La morte… alla lettera, o per metafora («quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste»). Questione preminente, che tutte le riassume: “perché i figli di Prometeo sono di nuovo infelici?”. Una domanda che può sembrare uno scherzo da prete: e virtù di ogni buon soldato (tale, anche la stenodattilo Carla di anni diciassette) resta tenere la bocca chiusa («ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?»). Certi nevrotici ammutiscono, altri si fanno funestamente logorroici. Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti). Sanguineti sceglieva di risolvere in grande polifonia un referto clinico: anche il brago è una couche per acquattarcisi comodi, scaldati al tepore di questo purgatorio de l’inferno.

Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso.

Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino).