domenica 6 dicembre 2009
quasi tredicimila schede
quasi tredicimila schede ] Roland Barthes Diario di un uomo sopraffatto dal dolore
Fabio Gambaro (2009) PARIGI Un lutto «immobile e non spettacolare», che però risulta estremamente doloroso e straziante. Un «lutto puro che non deve nulla al cambiamento di vita, alla solitudine», nascendo invece dalla «ferita aperta della relazione d' amore». Un lutto «senza sostituti o simbolizzazioni» che dà luogo a una sorta di «siccità del cuore». E' in questi termini che, durante gli ultimi anni della sua vita, Roland Barthes descriveva la propria condizione psicologica ed esistenziale, dopo la scomparsa della madre, avvenuta il 25 ottobre 1977. L' autore di Frammenti di un discorso amoroso era legatissimo a Henriette Binger, nata nel 1893 e rimasta vedova a ventitré anni, quando il piccolo Roland aveva solo un anno. Il loro fu un rapporto unico ed esclusivo, suggellato da un legame fortissimo che mai nulla verrà a rimettere in discussione. Per il celebre critico e saggista, la figura materna resterà fondamentale e insostituibile, tanto che la sua scomparsa sarà vissuta come la fine di un mondo. Un trauma senza precedenti che però egli si sforzò di descrivere, analizzare e comprendere, annotando giorno dopo giorno pensieri e stati d' animo, emozioni e riflessioni, ricordi e piccoli fatti quotidiani. E' nato così Journal de deuil, un lungo testo inedito (lo pubblicherà a febbraio l' editore Seuil) che fa luce sul dolore lancinante che non ha mai lasciato Barthes durante l' ultimo periodo della sua vita, quello in cui scrisse La camera chiara, e cercò inutilmente di concretizzare il progetto romanzesco intitolato Vita Nova.
Scritto tra il 26 ottobre del 1977 e il 15 settembre del 1979, perlopiù a Parigi, ma anche a Urt, nella casa dei Pirenei, o durante i viaggi in Tunisia e in Marocco, Journal de deuil è composto da trecentotrenta schede che, nonostante il carattere frammentario e non strutturato, formano un insieme omogeneo e perfettamente identificabile all' interno dell' enorme schedario - quasi tredicimila schede - lasciato da Barthes alla sua morte, avvenuta il 26 marzo 1980. Per tutta la vita, l' intellettuale francese ha sempre lavorato in questo modo, annotando di tutto su piccoli foglietti sparsi, a partire dai quali poi redigeva i suoi libri. Nelle pagine di questo inedito diario si susseguono così annotazioni rapide e concise, immagini fugaci e abbozzi di riflessioni, che a poco a poco, oltre a ricostruire la relazione con la madre, scandagliano la geografia del dolore e del lutto, la «regione atroce» della morte la cui percezione cambia via via che l' evento traumatico si allontana: «C' è un tempo - scrive l' autore del diario - in cui la morte è un avvenimento, un' avventura, che in quanto tale mobilita, interessa, tende, attiva, paralizza. E poi un giorno, essa non è più un avvenimento, è un' altra durata, compressa, insignificante, non narrata, tetra, senza ricorso: vero lutto non suscettibile di alcuna dialettica narrativa». Di fronte alla tragedia della morte, a Barthes non sembra possibile alcuna evoluzione, alcuna dinamica, motivo per cui rifiuta il discorso consolatorio degli amici e le convenzioni sociali del lutto. «No, il lutto (la depressione) è altra cosa dalla malattia. Da cosa si vorrebbe che io guarissi? Per trovare quale condizione, quale vita?», si domanda senza illusioni, dato che la scomparsa della madre ha trasformato radicalmente la sua percezione dell' esistenza: «I desideri che avevo prima della sua morte (durante la sua malattia) ora non possono più realizzarsi, perché ciò significherebbe che proprio la sua morte consente di realizzarli, che la sua morte potrebbe essere liberatrice rispetto ai miei desideri. Ma la morte mi ha cambiato, non desidero più ciò che desideravo. Occorre aspettare - ammesso che poi ciò si produca - che prenda forma un nuovo desiderio, un desiderio del dopo la sua morte.» Con gli amici, l' autore del Grado zero della scrittura mostra un perfetto autocontrollo, nasconde il dolore, si sforza di conversare e d' interessarsi alla vita e al lavoro. Ma poi, nella solitudine del suo appartamento, dove ormai non c' è più ad attenderlo la madre con cui ha sempre vissuto, si lascia andare al pianto e alla disperazione, travolto dalla «presenza dell' assenza» e dal carattere «discontinuo» e imprevedibile del lutto. Proprio l' alternanza delle emozioni e degli stati d' animo, il bisogno di solitudine e l' incapacità di aderire ai codici tradizionali del dolore connotano il suo stato d' animo. Il suo è un lutto «caotico» ed «erratico» che «resiste all' idea corrente - e psicanalitica - di un lutto sottomesso al tempo, che si dialettizza, si logora e si accomoda». Per Barthes, il tempo non placa il dolore, «non fa passare nulla, fa solo passare l' emotività del lutto». Per questo, alla parola «lutto» sostituisce progressivamente termini come «dolore», «dispiacere» o «sofferenza», che gli sembrano più concreti, anche se più «egoisti». Nel Journal de deuil - che arriverà nelle librerie francesi insieme a un altro inedito di Barthes: Carnets du voyage en Chine (Edizioni Christian Bourgois), testimonianza del viaggio in Cina del 1974, in compagnia di Philippe Sollers e Julia Kristeva - la sola ancora a cui aggrapparsi sembra esser la scrittura. Nell' oceano di dolore dominato dall' apatia, dallo smarrimento e dalla noia, la scrittura si propone come «rifugio, salvezza, progetto, breve amore, gioia.» L' autore dell' Impero dei segni vi si accosta secondo un movimento quasi ineluttabile, lo stesso che spinge «una devota sincera verso il suo Dio». Anche se poi è attraversato dai dubbi e dalla paura di tradire il ricordo della madre: «Non voglio parlarne per paura di fare della letteratura - o senza essere sicuro che non lo sarà - anche se poi, nei fatti, la letteratura nasce proprio da queste verità.» Così, quando finalmente si rimette al lavoro, sa che sta per «integrare il dolore a una scrittura», dato che scrivere è l' unico modo per combattere «la lacerazione dell' oblio che si annuncia assoluto». Da questo forma particolare di elaborazione del lutto nascerà La camera chiara, un saggio sulla fotografia che in realtà diventa un omaggio alla madre e un «racconto di resurrezione», come scrive il Magazine Littéraire nel suo ultimo numero, in gran parte dedicato proprio a Barthes. Journal du deuil è un testo commovente e ricco di riflessioni, che naviga a vista tra autobiografia e autoanalisi critica, tra singolare e sociale, tra fedeltà al passato e bisogno di emanciparsene. Come scrive Nathalie Léger nell' introduzione, «non è un libro concluso dall' autore, ma l' ipotesi di un libro da lui desiderato, che contribuisce all' elaborazione della sua opera e che, di conseguenza, la illumina».
Scritto tra il 26 ottobre del 1977 e il 15 settembre del 1979, perlopiù a Parigi, ma anche a Urt, nella casa dei Pirenei, o durante i viaggi in Tunisia e in Marocco, Journal de deuil è composto da trecentotrenta schede che, nonostante il carattere frammentario e non strutturato, formano un insieme omogeneo e perfettamente identificabile all' interno dell' enorme schedario - quasi tredicimila schede - lasciato da Barthes alla sua morte, avvenuta il 26 marzo 1980. Per tutta la vita, l' intellettuale francese ha sempre lavorato in questo modo, annotando di tutto su piccoli foglietti sparsi, a partire dai quali poi redigeva i suoi libri. Nelle pagine di questo inedito diario si susseguono così annotazioni rapide e concise, immagini fugaci e abbozzi di riflessioni, che a poco a poco, oltre a ricostruire la relazione con la madre, scandagliano la geografia del dolore e del lutto, la «regione atroce» della morte la cui percezione cambia via via che l' evento traumatico si allontana: «C' è un tempo - scrive l' autore del diario - in cui la morte è un avvenimento, un' avventura, che in quanto tale mobilita, interessa, tende, attiva, paralizza. E poi un giorno, essa non è più un avvenimento, è un' altra durata, compressa, insignificante, non narrata, tetra, senza ricorso: vero lutto non suscettibile di alcuna dialettica narrativa». Di fronte alla tragedia della morte, a Barthes non sembra possibile alcuna evoluzione, alcuna dinamica, motivo per cui rifiuta il discorso consolatorio degli amici e le convenzioni sociali del lutto. «No, il lutto (la depressione) è altra cosa dalla malattia. Da cosa si vorrebbe che io guarissi? Per trovare quale condizione, quale vita?», si domanda senza illusioni, dato che la scomparsa della madre ha trasformato radicalmente la sua percezione dell' esistenza: «I desideri che avevo prima della sua morte (durante la sua malattia) ora non possono più realizzarsi, perché ciò significherebbe che proprio la sua morte consente di realizzarli, che la sua morte potrebbe essere liberatrice rispetto ai miei desideri. Ma la morte mi ha cambiato, non desidero più ciò che desideravo. Occorre aspettare - ammesso che poi ciò si produca - che prenda forma un nuovo desiderio, un desiderio del dopo la sua morte.» Con gli amici, l' autore del Grado zero della scrittura mostra un perfetto autocontrollo, nasconde il dolore, si sforza di conversare e d' interessarsi alla vita e al lavoro. Ma poi, nella solitudine del suo appartamento, dove ormai non c' è più ad attenderlo la madre con cui ha sempre vissuto, si lascia andare al pianto e alla disperazione, travolto dalla «presenza dell' assenza» e dal carattere «discontinuo» e imprevedibile del lutto. Proprio l' alternanza delle emozioni e degli stati d' animo, il bisogno di solitudine e l' incapacità di aderire ai codici tradizionali del dolore connotano il suo stato d' animo. Il suo è un lutto «caotico» ed «erratico» che «resiste all' idea corrente - e psicanalitica - di un lutto sottomesso al tempo, che si dialettizza, si logora e si accomoda». Per Barthes, il tempo non placa il dolore, «non fa passare nulla, fa solo passare l' emotività del lutto». Per questo, alla parola «lutto» sostituisce progressivamente termini come «dolore», «dispiacere» o «sofferenza», che gli sembrano più concreti, anche se più «egoisti». Nel Journal de deuil - che arriverà nelle librerie francesi insieme a un altro inedito di Barthes: Carnets du voyage en Chine (Edizioni Christian Bourgois), testimonianza del viaggio in Cina del 1974, in compagnia di Philippe Sollers e Julia Kristeva - la sola ancora a cui aggrapparsi sembra esser la scrittura. Nell' oceano di dolore dominato dall' apatia, dallo smarrimento e dalla noia, la scrittura si propone come «rifugio, salvezza, progetto, breve amore, gioia.» L' autore dell' Impero dei segni vi si accosta secondo un movimento quasi ineluttabile, lo stesso che spinge «una devota sincera verso il suo Dio». Anche se poi è attraversato dai dubbi e dalla paura di tradire il ricordo della madre: «Non voglio parlarne per paura di fare della letteratura - o senza essere sicuro che non lo sarà - anche se poi, nei fatti, la letteratura nasce proprio da queste verità.» Così, quando finalmente si rimette al lavoro, sa che sta per «integrare il dolore a una scrittura», dato che scrivere è l' unico modo per combattere «la lacerazione dell' oblio che si annuncia assoluto». Da questo forma particolare di elaborazione del lutto nascerà La camera chiara, un saggio sulla fotografia che in realtà diventa un omaggio alla madre e un «racconto di resurrezione», come scrive il Magazine Littéraire nel suo ultimo numero, in gran parte dedicato proprio a Barthes. Journal du deuil è un testo commovente e ricco di riflessioni, che naviga a vista tra autobiografia e autoanalisi critica, tra singolare e sociale, tra fedeltà al passato e bisogno di emanciparsene. Come scrive Nathalie Léger nell' introduzione, «non è un libro concluso dall' autore, ma l' ipotesi di un libro da lui desiderato, che contribuisce all' elaborazione della sua opera e che, di conseguenza, la illumina».