giovedì 9 aprile 2020

Eremita Eremo

Un informatore riferi che la privativa di Marsaglia aveva

ricevuto il rifornimento di tabacco evenne formata la squadra
di prelievo. Era una comandata molto ambita perché oltre agli
incerti del prelievo personale rappresentava un' evasione piacevole, 
nel coma dell'inverno, per un lungo tratto sgelato e snevato, a 
differenza dell'altra parte a tramontana, ancora tutta ricolma di neve. 
Marsaglia distava due ciglioni da Mombarcaro, due versanti bagnati
di sole, fra un mosaico di spazi nevati che davano il thrill della
navigazione in arcipelago, e col suo medioevale castello, e gli spalti

alberati e la sua generale apparenza murata nell'evo di mezzo
dava l'impressione di un paesaggio alla Salvator Rosa 
paradossalmente nordico. L'aria era sottile e fredda, sportivamente

fredda.



Il partigiano Johnny rappresenta probabilmente il caso filologico più intricato della letteratura italiana del secondo Novecento. Il romanzo fu pubblicato postumo a cura di Lorenzo Mondo (..) il nuovo assetto testuale proposto da Dante Isella nella «Biblioteca della Pléiade». Isella riproduce sostanzialmente immutata la lezione della Corti, ma a partire dal ventunesimo capitolo (con cui comincia la doppia redazione) accoglie la stesura più recente, dove i blocchi in inglese sono assai più rari (come è noto, Fenoglio scriveva sempre una prima versione in questa lingua) e la prosa appare in generale più sorvegliata. opere/fenoglio

La questione è in ogni caso ulteriormente complicata dalle polemiche sorte tra gli studiosi a proposito della data di composizione del romanzo (per Maria Corti gli anni immediatamente successivi alla guerra, per Bigazzi e Saccone - seguiti oggi dalla maggior parte dei critici - il biennio 1956-1958) e dei rapporti con Primavera di bellezza, il romanzo nato dalla costola di un originario progetto di "ciclo resistenziale" che coprisse interamente il periodo dal 1943 alla Liberazione.

opere/fenoglio Johnny (tutti lo chiamano soltanto col suo soprannome) è un ventiduenne studente universitario di Alba, arruolato nell'esercito nonostante l'insofferenza verso il fascismo  (..) Eppure Johnny non vuole mancare a un impegno etico che ha preso innanzitutto con se stesso e continua da solo una guerra divenuta ormai sempre più personale, riuscendo anche a uccidere una delle pericolosissime spie fasciste (capitoli 31-38: «Inverno»). Alla ricostituzione delle bande partigiane, Johnny si scopre profondamente cambiato, incapace di riprendere la consueta vita di gruppo e, ora che i momenti più difficili sembrano dietro le spalle, quasi spaventato dall'imminenza della vittoria. "Tentato" dalla morte, Johnny decide di non raggiungere subito la missione inglese appena paracadutata, dove è atteso come traduttore e rimane ucciso in un'azione del tutto insignificante (nella prima stesura il romanzo si concludeva invece con la vittoria dei partigiani) (capitolo 39: «Fine»). 

opere/fenoglio «L'interesse così stilistico come etico per il caso Fenoglio» (Gianfranco Contini) nasce dalla assoluta singolarità di questo narratore che sfugge ancora oggi a tutte le consuete classificazioni della narrativa italiana del Novecento (realismo/espressionismo; tradizione/avanguardia...). Proprio per questo la critica ha insistito molto sulla vocazione fenogliana di presentarsi immediatamente come "classico", già sottratto in partenza alle mode e al divenire, e Gian Luigi Beccaria ha parlato per Il partigiano Johnny di «grande stile», che «permette allo scrittore la trasposizione degli avvenimenti - scelti, strutturati, trasformati, eppure credibili - nell'esemplarità simbolica di una lingua epica». Utilizzando la grande "metafora" della Resistenza, Fenoglio ha scritto così un romanzo indimenticabile sulla crescita, la scelta morale e la morte, che insieme è anche una delle più belle pagine "romanzate" della storia italiana

mercoledì 8 aprile 2020

Fisionomie *ga19*

GA18
GA19

Ho sempre detestato il cinema erotico che trovo non solo di una noia mortale, ma parente povero del cinema porno, che almeno una sua destinazione e “utilità finale” ce l’ha, e finanche una sua legittimità “estetica”, perché affonda senza mediazioni di comodo nella pura etologia animale e nell’esibizione dell’organico o della jouissance dei corpi che non consente repliche (nel porno non esistono corpi senza organi ma semmai organi senza il corpo, inteso come totalità di un soggetto agente) tanto che il final-cut coincide espressamente col money-shot. Trovo, invece, piuttosto interessante il discorso del bdsm che ha avuto nel cinema alcuni trascorsi estemporanei e quindi non d’impatto tale da costituirne un’adeguata tematizzazione.  Il recente successo di filmetti slavati, come i coloristici 50 sfumature che si innestano sulla linea del 9 settimane e mezzo, non fanno altro che ribadire una certa propensione all’annacquamento pseudo-romantico, piuttosto che allo sdoganamento, di una pratica sessuale da sempre relegata ai margini, se non ad un sottobosco, che si preferisce mantenere nell’anonimato o in quella linea d’ombra che investe, questo si, alcune “nuance” del desiderio. Di sicuro ci sarebbe da interrogarsi sul perché del successo di questo genere di film, ma la cosa riguarderebbe più la sociologia spicciola, la sessuologia da reader’s digest o il costume più che l’immaginario erotico in senso stretto.
Non so se nell’ultimo capitolo della sua storia della sessualità, uscita di recente in Francia, Michel Foucault si occupi dell’argomento, tra l’altro a lui vicino: come è noto il filosofo francese era uso frequentare le saune e i locali sadomaso della San Francisco omosessuale fin dagli anni 70.
A memoria, dunque, ricordo oltre lo storico Histoire d’O, il Masoch di Taviani, il Portiere di notte della Cavani, alcuni biopic di De Sade tutti da dimenticare e i più recenti Segretary e La Venere in pelliccia di Polaski per finire con la nefandezza di Nynphomaniac di Von Trier. Anche se le scene di tal natura all’interno di film mainstream non si contano (fra i migliori mi vengono in mente  I ragazzi del coro di Aldrich e Crusing di Friedkin tra gli altri). Escluderei il Salò di Pasolini in quanto, oltre a non avere nulla a che fare con Sade, esula totalmente da ogni forma di erotismo, seppur mortifero, per adombrare aspetti insiti nella personalità del suo autore e che, sebbene mascherati dalla solita patina ideologica, rivelano un sadismo di fondo con il quale probabilmente,  consciamente o no, ha voluto fare i conti pubblicamente in vista della sua tragica fine.
Per tornare a Foucault tale pratica per lui aveva a che fare con la sua attrazione per la morte foriera perfino di alcuni tentativi di suicidio in gioventù, tanto è vero che poi questa sua propensione verso il sesso estremo, lo avrebbe portato, in tempo di aids, a rimetterci la vita per altre vie. Ora, al di là del fatto che il sesso in sé ha sempre a che vedere con la morte,  cosa ha di pregnante tale pratica che la porta a investire aspetti reconditi del nostro immaginario; e, soprattutto, che cosa avrebbe a che vedere tutto questo col cinema?
Una prima questione da mettere in luce è il fatto che il bdsm è soprattutto una pratica simbolica in senso stretto che ha quindi a che fare con la rappresentazione.
La seconda è che costituisce un rituale che contempla delle regole precise.
La terza è che non è finalizzato al rapporto sessuale in senso tradizionale, ma lo elude. In questo può essere interpretato come una ricontestualizzazione esasperata dell’amor cortese (il ruolo della mistress ricalca in altra chiave la donna angelicata e irraggiungibile del dolce stil novo e dell’epopea trobadorica) in chiave erotico performativo che scinde l’atto dalla sua realizzazione, come avviene eminentemente nel cinema e in quello porno in particolare.
La quarta e forse più importante, è che è una sorta di controllo del limite che può essere interpretato sia come un esorcismo nei confronti della morte sia anche come controllo della sofferenza o dei gradi di godimento nel dolore o di deattualizzazione attraverso il progressivo procrastinarsi dell’appagamento.  Se a questo aggiungiamo il fatto che contempla una sorta di gioco di ruolo, le affinità col cinema si possono assumere sul piano della rappresentazione o della mise-en-scene di una parafilia che, come succede in molto cinema d’azione, intende ritualizzare anche alcuni aspetti della violenza insiti in ogni tipo di rapporto sessuale – ma non solo: volendo ampliare il discorso sul piano del rapporto interpersonale il bdsm sembra voler perfino veicolare fino a vanificarle certe dinamiche intrinseche ai “normali” rapporti di coppia o del discorso amoroso stesso che, anche se non esplicitamente sadomasochistiche, contemplano un vero e proprio esercizio di potere occulto che il bdsm s’incarica di svelare ritualizzandolo. Da questo punto di vista se l’amore è sempre plagio, si potrebbe dire che ogni rapporto interpersonale fondato sulla differenza sessuale è, almeno in una certa misura, sempre e comunque di tipo sadomasochistico. Non è difficile a questo punto immaginare perché lo stesso Foucault ne fosse particolarmente attratto, in quanto probabilmente vedeva in esso una forma particolare di libertà che svincolasse definitivamente la sessualità da ogni fine utilitaristico (la procreazione) e con esso da ogni vincolo di autorità precostituita e quindi di esercizio di potere effettivo per proiettarsi oltre i confini dell’immaginario.
Concludiamo queste brevi note dicendo che i vari parafernalia usati come l’abbigliamento, da una parte, e il bondage e il bandage che richiamano, dall’altra, la condizione di immobilità e d’impotenza visiva, e di voyeur allo stesso tempo, dello spettatore avvolto anche dall’oscurità onirica della sala cinematografica completano il quadro.

©F.B.Senhal
Cinema & BDSM. Alcune riflessioni estemporanee.