giovedì 24 novembre 2011

l'espressione di una sensibilità collettiva

note
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Nel corpo lutulento della chiacchiera quotidiana ogni evento produce una efflorescenza di battute  che aspirano alla dignità dell'aforisma, di giochi verbali che navigano nell'effimera spuma sull'onda di ciò che accade, di cachinni goliardici intrisi di volgarità.
Ci sarà anche chi li immette per la prima volta nei canali comunicativi dove, in forma orale o scritta , questo materiale linguistico affiora senza un preciso stato civile, intrecciandosi con l'analogo fiume della barzelletta anonima.
Ma quel che importa non è tanto stabilire paternità e maternità, quanto l'espressione di una sensibilità collettiva.
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dall'Agenda, 1990.
Dunque, già vent'anni orsono un attento osservatore poteva cogliere i segni dello sfracello linguistico dilagante. E non è mai tardi per porre mano, almeno per quel che ci riguarda, al lavoro sulla parola che governa lo spazio comune.

Il giornalismo è il primo ostacolo da rimuovere, meglio: aggirare; la sua funzione vacua ormai - che toglie spazio alla comunicazione diretta delle attività sociali e personali in atto, di merito - estenua vieppiù la deriva chiacchiereccia che sta sostituendo il semplice imbonimento diretto dei giornali e delle tivvù.
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altre note e meno note
dallo scaffale, 1967 ed.Einaudi, L'uomo ad una dimensione.
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[1964] Oggi, nel prosperoso stato della guerra e del benessere, le qualità umane tipiche di un'esistenza pacifica sembrano asociali e antipatriottiche; intendo qualità come il rifiuto di ogni durezza, cameratismo e brutalità; la disobbedienza alla tirannia della maggioranza; il far professione di paura e di debolezza (la reazione più razionale a questa società!); una intelligenza sensibile nauseata da ciò che viene perpetrato; l'impegno in azioni, di solito deboli e poste in ridicolo, di protesta e di rifiuto. Anche queste espressioni di umanità verranno guastate da qualche necessario compromesso — dal bisogno di coprirsi, d'essere ca- |PAG.252| paci di imbrogliare gli imbroglioni, e di vivere e pensare a dispetto di questi.

Nella società totalitaria gli atteggiamenti umani tendono ad assumere carattere d'evasione, a seguire il consiglio di Samuel Beckett: « Non aspettare ti sia data la caccia per nasconderti..»
(H.M. Die One-Dimensional Man)

domenica 20 novembre 2011

l' Eroe che ero

Amore amore che cadi e giaci supino la tua stella è la mia dimora.
Amelia Rosselli, Variazioni belliche

27 dic 2008 ... Calmati e l'eroe che ero io diventerà la bestia che più nulla vuoleCalmati ele scodelle dei poveri si riempiranno. Calmati e le ventate in poppa ...
ameliarosselli.blogspot.com

23 minuti fa
... che non ti aspetti: per esempio, molti dei videogame più recenti e di successo sono modellati sul canonico «viaggio dell'eroe» che Joseph Campbell ha identificato come la formula narrativa alla base di molta letteratura. ...
03 Giu 2011
Il corpo dell'eroe non fa l'amore, se non per "riposarsi". Una forma di fuga dalla performance anche questa. I corpi maschili nell'amore sono quelli del Don Giovanni, quelli del trickster, da PeerGynt a tutti i giovani ...

altre forme narrative, ad altri media, la serialità americana.

Se esce ancora un libro o un articolo che si piange addosso per la morte del romanzo, giuro che sottopongo l’autore alla cura Ludovico, quella di Arancia meccanica. Salvo che, al posto delle immagini di violenza e della Nona di Beethoven, gli proietto, con l’aiuto di mollette che lo costringano a tenere gli occhi ben aperti, Mad Men o The Wire. Va bene, diamo per scontata la morte del romanzo, la fine della letteratura e lo svuotamento del più borghese e cristallizzato tra i generi. A un patto, però. Se l’editoria, specie quella italiana, risulta infatuata di falsi romanzi non è colpa della forma-romanzo. Sì, forse non ci sono più i romanzi di una volta (come le mezze stagioni e i prati della periferia), quelle grandi narrazioni che rispecchiavano e insieme criticavano la società, ma se continuiamo a cercare qualcosa in cui l’autore, attraverso dei personaggi, prende in esame alcuni grandi temi dell’esistenza, beh, allora forse è venuto il momento di dare un’occhiata non solo ai libri ma anche ad altre forme narrative, ad altri media. Tipo la serialità americana.
Quanto a scrittura, al romanzo si chiede di darsi per intero in ciascuno dei suoi frammenti, in ciascuna delle sue manifestazioni; sul supporto cartaceo o su quello schermico ciò che muta è il linguaggio, non la forma-romanzo. Tempo fa, Jonathan Franzen dichiarava che le serie tv «stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie tv…».
In un celebre discorso, Milan Kundera sosteneva che il bene più prezioso della cultura europea — il suo rispetto per l’individuo, il suo rispetto per il pensiero originale — è deposto «come in uno scrigno d’argento nella storia del romanzo, nella saggezza del romanzo». Dobbiamo purtroppo prendere atto che questa saggezza non appartiene più all’Europa, da tempo si è trasferita altrove, in contrade che credono ancora ai sogni, anche a quelli culturali.

La mossa di Franzen
Quando è uscito l’ultimo romanzo di Franzen, Libertà, a proposito delle non poche polemiche suscitate dal libro, Francesco Pacifico, intervistato da Mariarosa Mancuso alla radio svizzera, ha fatto un’osservazione molto importante: Franzen manda indietro l’orologio del genere romanzo per vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte del nostro tempo, la serialità televisiva di alta qualità, che ha già capolavori assodati in Six Feet Under, Sopranos, Mad Men eThe Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità narrativa, umana e tematica, e al contempo di largo consumo.
La forma-romanzo, dunque, non è morta ma migra verso nuovi e differenti media. Si tratta di un processo che possiamo osservare in tutta la sua vitalità oggi che il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento. I media si ibridano, si fondono e, insieme con loro, cambiano i modi di distribuire e consumare i contenuti. Com’è noto, si tratta del fenomeno della convergenza, che tecnicamente sta a significare l’unione di più mezzi di comunicazione, un amalgama reso possibile dalla tecnologia digitale. La convergenza non è solo un processo tecnologico, o scandito dalla tecnologia, è anche un cambiamento antropologico, un’attitudine culturale che incoraggia gli utenti a creare connessioni tra diversi testi, a usare le tecnologie sempre meno come strumenti per comunicare e sempre più come nuovi territori da scoprire, e i media non come semplici protesi, ma piuttosto come ambienti in cui siamo immersi e in cui viviamo la nostra esperienza quotidiana.
La convergenza è una tendenza al meticciato che coinvolge sia le tecnologie e i device che i linguaggi e le forme testuali: anche quelle più consolidate e archetipiche come il romanzo si modellano e si plasmano intorno a nuovi «contenitori». La serialità televisiva, certo. Ma anche altri media presentano tracce evidenti della persistenza di un modello narrativo che trova nuova linfa in forme che non ti aspetti: per esempio, molti dei videogame più recenti e di successo sono modellati sul canonico «viaggio dell’eroe» che Joseph Campbell ha identificato come la formula narrativa alla base di molta letteratura.
L’aspetto più curioso è che molti scrittori stanno iniziando a confrontarsi con la tv, o almeno con il suo genere più «nobile». Negli Stati Uniti, il dibattito è in corso ormai da tempo. Gary Shteyngart, l’autore di uno dei romanzi più discussi e letti degli ultimi tempi in America, Super Sad True Love Story, intervistato da «The Atlantic» ha parlato del grande cambiamento che la narrativa contemporanea sta attraversando e di quanto pesi il confronto con la tv: «Canali come Hbo e Showtime stanno conquistando tutti. La tipologia di artifici narrativi che sono sempre apparsi in forma di romanzo, ora compaiono in serie come The Wire e Breaking Bad. Queste serie innescano la “spinta narrativa” che chiediamo, ci insegnano diversi mondi e diversi modi di vivere. Ma, allo stesso tempo, non richiedono un’immersione testuale totale. Siedi semplicemente lì e lasci che tutte queste cose accadano sullo schermo». Nomini brand come Hbo e Showtime e, a proposito di tendenze culturali, pensi a cosa un tempo erano Einaudi e Adelphi.

Che la contaminazione tra letteratura e serialità televisiva di qualità sia un processo innescato in modo irreversibile è ormai evidente da altri numerosi segnali: lo stesso Franzen sta lavorando a un adattamento tv de Le correzioni; una delle serie più belle degli ultimi anni, prodotta da Hbo, è Bored to Death, letteralmente «annoiati a morte» ideata e sviluppata dallo scrittore Jonathan Ames a partire da un suo racconto. Alla rivista «Link. Idee per la televisione», Ames ha spiegato: «Come romanziere sono abituato a fare il direttore della fotografia, il costumista, l’editor, persino l’Hbo: prendo tutte le decisioni da solo. A dire il vero non trovo che sia così differente dallo scrivere un romanzo. Ogni puntata, in un certo senso, è come un capitolo: non vedi ancora dove andrai di preciso con il capitolo successivo, e non sai neppure se ti sarà permesso di arrivare fino alla fine».
Insomma, tra il romanziere e la figura dello showrunner il velo di separatezza sembra essere sempre più sottile, tanto che il processo vale anche all’opposto: grandi executive producer seriali come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, Matthew Weiner e David Simon si sono guadagnati sul campo la qualifica di «autore», un tempo prerogativa esclusiva dei territori «nobili» della letteratura edel cinema. Se mai la serialità ha fatto giustizia di quella Nozione d’Autore che ha contribuito a creare non pochi equivoci, specie in Italia. Il valore della scrittura è generato da una sorta di qualità plurale che tiene a bada il narcisismo autoriale, le manie di grandezza del singolo scrittore. La serialità è un misto di creatività individuale e progetto industriale, di invenzione e ripetizione, di originalità e rimandi. Rivela nuove dinamiche della scrittura, nuovi ritmi imposti dalla produzione e nuove attenzioni al pubblico.
Da alcuni anni, da quando è apparsa una delle prime serie di culto come Star Trek, e poi da Weeds a Lost, da Bored to Death a Breaking Bad, i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro. Le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano, ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo e che promettono di farci perlustrare. La sensazione è che gli strumenti narrativi dei telefilm americani lavorino per un linguaggio sciolto da ogni vincolo di obbedienza ideologica o sociale, si abbandonino al puro gusto di narrare.

Educazione sentimentale
Il dato più significativo per cogliere la persistenza della forma-romanzo e la sua rigenerazione attraverso nuove sembianze mediali è forse questo: non solo le serie tv sono ricolme di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma allo stesso tempo trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti «rubati» a modelli alti, a forme di racconto più antiche. È difficile che un ragazzo si accosti ancora alla grande narrativa ottocentesca. Ma è molto probabile che in alcune serie trovi orme di soluzioni linguistiche tratte da quegli autori (ben conosciuti dagli sceneggiatori). Succede, insomma, che l’educazione sentimentale degli adolescenti di tutto il mondo si formi ora sui «teen drama »: non più sul romanzo ma sul telefilm di formazione. Nelle forme espressive della serialità televisiva, la cultura americana ha trovato lo spazio ideale per dare forma di racconto a una visione del mondo, per restituire un’immagine della società dispiegata attraverso un impianto narrativo che renda ragione della sua complessità. È quello che in Italia spesso non si riesce a fare, perché il racconto del Paese è stato demandato ai generi televisivi più bassi, prigionieri di un’estetica e di una cultura che dal neorealismo in avanti (a parte poche eccezioni) ha rinunciato alla possibilità di «pensare in grande».

Aldo Grasso

sabato 19 novembre 2011

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venerdì 18 novembre 2011

era lui la mucca


LE DONNE DI GADDA
pag 66
Non diciamo d’un birro, d’un federaloso stivaluto, coltelluto sul ventre e ricattatore della provincia radunata coi «presente! » urlati nei raduni: neri, tetri, funerari raduni di certamente prestanti giovani, ma travestiti per l’occasione in nerobandati beccamorti. 

Il grido ku-ce ku-ce, ch’era il precipuo tra i doveri ufficiali del maritiello arzillo (arzillo dati i raggiunti o raggiungibili spaghetti), il ku-ce ku-ce maritale propietanza divenne grido esasperato, fuor della strozza della gentile coniugata che di quel grido aveva subito inteso venire in tavola fumo e arrosto e fiato bastevole a emettere il grido medesimo. 

Dall’entusiasmo metà vero metà simulato di codesta misera e, in certo senso, rispettabile furbiciattoleria di borghesuzzi a ventre vuoto germinò l’entusiasmo iperbolico scenicamente ululato di borghesi a ventre pieno: entusiasmo per il ku-ce, entusiasmo per l’arrosto.
 I radiosi destini del pollo in aureola di parole senza luce: il pollo aureolato funzionà da croce di Costantino al Ponte Molle: fu il segno di un avvenire indefettibile, garantito dal ku-ce. «In hoc signo vinces,»
 La nulla educazione, l’appetito sempiterno e zefiro e zefirucci gradevolmente serpolanti tra intimine e delicatissime cosce nei ferragosti assetati operarono il miracolo del ridare un fiato effimero al morto, un barlume di gastrofagica speranza a secolare abulia. 

E tutto si conchiuse in una fede e la fede in una formula: 
«Che sarebbe mai la nostra povera Italia senza quell’omo! Vie’ a mmagnà, Zefirì, ch’è pronto. Viette a strozzà, Zefirì, si no se fredda.» 
No, non voglio irridere a quelle sciagurate moltitudini di denutriti e di malarici aspiranti statali (AAAAA statale distintissimo bella assolata affittati, fine pensione. Via del Gelsomino 119-B piano ultimo. Escluse donne) che dalla superpopolata affocata terra di fuori venivano chiedere un pane da deglutire e un affitto da pagare con o senza fine pensione all’Urbe. Urbs Caput Mundi o anche più su alla 
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metropoli lombarda detta anche Milano, Nemmeno vo’ irridere a quegli altri poveri cristacci furmatori di mezza sigheretta alla volta che non potendo sublimarsi statali si contentarono di appollaiarsi parastatali a fare paglia, negli uffici e ne’ ministeri infiniti. Non vo’ irridere alle lor donne, a cui devo per dovere civile tutto il mio rispetto di essere umano, con la simpatia di chi ha del pari sofferto nella sua carne, e in quella fraterna: e incontrato del pari disperati giorni e anni e umiliate lacrime e fame. 
Voglio dire che il fallòs, ben conoscendo che chi ha fame non adora più lui, ma piuttosto il fornaro, si studiò convitare agli uffici inutili e alla misera mensa le multitudini de’ foranei (nel mentre ululava avverso l’inurbamento); dando loro intendere ch’egli aveva in giurisdizione e balia propia, che dico aveva mancipio d’ognuna mano Cerere e Pale, ano contare Mercurio; sicchè il ripartitore del pubblico denaro era lui, e il mietitore degli universi frumenti.

Lui Sovrano seminatore e trebbiatore pometino. Il beneficiente solo era lui. Il fondo aureo e le carrafabulanti farfallazze della Bankitalia erano venuti da lui. La idrovora e l’alternatore e la trebbiatrice erano in lui. La mucca milanese la mungeva lui. Quella mucca, che più la mungono, e meglio si sente. Anzi era lui la mucca. Vo’ vu’ direte: il problema dello sfamare il popolo italiano, cioè i quarantaquattro gloriosi milioni che tirano quotidianamente la carretta tra la rena de’ duo lidi e lo spelacchiato monte a Pennino e bestemmiano con incredibile turpiloquio il nome santo della Madre, detta altresì da taluni loro Maronna e seguitano rifigliare tra un cataclisma e ‘l seguente; il problema dello sfamare e del chetare al sonno de die in diem codesta maravigliosa popolazione italiana che fatica e ansima un po’ pertutto e s’industria al meglio, codesto problema è angoscia antica e perenne, che si propone a qualunque reggitore della Italia. Ma non il dèspota statolatra lo risolvette, col vietate l’emigrazione, col macchinare la sua bambolesca scipionata. 

P. 67



http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/essays/eros1-3.php

giovedì 17 novembre 2011

Già v'annoia l'ultima trovata della moda?


Lulu, Self Portrait


Ditemi: come va con l'altra?
Meglio? meno grane? - Mano ai remi! -
Vana linea costiera s'assottiglia,
scompare la memoria estrema

di me, isola fluttuante
(per cielo, non per mare...)
Anime, anime: sorelle! Anime:
amiche - mai più amanti!

Come vi va con la creatura
semplice? Senza divinità? E poi?
Voi, sceso dal trono, voi
che avete deposto la regina,

come vivete? Non c'è male? Non più
beghe? E bevete - quanto, adesso? E la cucina?
Il dazio della mediocrità immortale
come lo pagate, poveretto?

"Basta con le scenate, con gli eccessi -
cambio casa, vado via!"
Con la qualunque - come state
di che vivete, voi - mio eletto?

Mangiate - e dopo pranzo un sonnellino?
- Non lamentarti quando sarai sazio!...-
Con il simulacro come state
voi che avete dissacrato

il Sinai? Come vivete con la donna
terrestre? Per la costola vi piace?
Non vi frusta la fronte la vergogna?
La briglia di Giove vi dà pace?

E la salute? E i nervi? Senza
problemi? A letto tutto bene?
L'immortale piaga della coscienza
come la curate, poveretto?

Come vivete con la merce da mercato?
Troppo cara la vita? Vi assilla
l'alto prezzo? Dopo i marmi di Carrara
che ve ne fate del tritume

di gesso? (E' in pezzi
il dio scolpito nell'argilla...)
Come ci state con la milleunesima
voi - che avete conosciuto Lilith?

Già v'annoia l'ultima trovata
della moda? Sottratto all'incantesimo,
dite, come ve la passate
con l'umana senza il sesto
senso?

In coscienza - sei felice?
No? In quel disastro senza dei
come stai, amore? E' dura? Sì?
Come per me con l'altro?



Marina Cvetaeva, Tentativo di gelosia

giovedì 10 novembre 2011

Ad un tratto stanchi

Il mondo salvato dai ragazzini, Elsa Morante, Einaudi
ad un tratto / stanchi di tutte queste morti animali / e di tutta questa vita/ aver voglia di morire (Genova, 2011)

Sul treno per Mantova


domenica 6 novembre 2011

Duineser Elegien





… Certo è strano non abitare più sulla terra,

non più seguir costumi appena appresi,

alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa

non dar significanza di futuro umano;

quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose

non esserlo più, e infine il proprio nome

abbandonarlo, come un balocco rotto.

Strano non desiderare quel che desideravi. Strano

quel che era collegato da rapporto

vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso

esser morti;

quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco

un pò d'eternità. - Ma i vivi errano, tutti,

chè troppo netto distinguono.

Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno

se vanno tra i vivi o tra i morti. L'eterna corrente

sempre trascina con sè per i due regni ogni età,

e in entrambi la voce più forte è la sua…


… Non crediate che il Destino sia poi tanto di più di quel

condensato

che è l'infanzia; quante volte sorpassaste l'amato

compagno ansimando,

ansimando per una corsa beata verso il nulla, verso

l'Aperto…


La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede

l'aperto. Soltanto gli occhi nostri son

come rigirati, posti tutt'intorno ad essa,

trappole ad accerchiare la sua libera uscita.

Quello che c'e di fuori, lo sappiamo soltanto

dal viso animale; perche noi, un tenero bambino

già lo si volge, lo si costringe a riguardare indietro e

vedere

figurazioni soltanto e non l'aperto ch'è sì profondo

nel volto delle bestie. Libero da morte…


… Questa la vediamo noi soli; il libero animale

ha sempre il suo tramonto dietro a sé.

E dinanzi ha Iddio; e quando va, va

in eterno come vanno le fonti.

Noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un

giorno,

lo spazio puro dove sbocciano

i fiori a non finire. Sempre c'e mondo

e mai quel nessundove senza negazioni

puro, non sorvegliato, che si respira,

si sa infinito e non si brama. Uno, da bimbo

ci si perde in silenzio e ne è

scosso. O un altro muore e lo diventa.

Perchè quand'è vicina, la morte non si vede

e guardiam fissi fuori, forse col grande sguardo degli

animali.

Gli amanti, se non ci fosse l'altro, che

preclude la vista, a quello spazio puro son vicini e

stupiscono...

come per svista e stato aperto loro

dietro l'altro... ma oltre l'altro

nessuno può andare, ed ecco a tutt'e due tornare mondo.

Sempre rivolti al creato, in essi vediamo

soltanto il rispecchio del Libero

da noi stessi oscurato. O che una bestia

muta, alzi gli occhi e guardi tranquilla attraverso di noi…


… Se ci fosse coscienza della nostra specie,

nel sicuro animale che pur per altra via

ci viene incontro -, lui ci rigirerebbe

col suo andare. Ma per lui, l'essere suo

è infinito, è sciolto e senza sguardo

sul suo proprio stato, puro come il suo sguardo

sull'Aperto.

E dove noi vediam futuro lui vede invece il tutto,

in quel tutto se stesso e salvo sempre…


… Eppure nel vigile, caldo animale

c'e il peso e l'ansia di una gran tristezza.

Perchè anche ad esso sempre aderisce

quel che spesso schiaccia noi: la rimembranza;

come se già una volta ciò verso cui tendiamo

fosse stato più vicino, più fido, e quell'accosto

tanto, tanto tenero. Qui tutto è distanza

e là era respiro. Dopo la prima patria

questa seconda gli è ibrida e ventosa…


… O beatitudine della creatura piccola

che resta sempre nel grembo che la portò,

o felicità del moscerino che saltella ancor dentro

persin quando va a nozze: perchè grembo è tutto.

E guarda la mezza sicurezza dell'uccello

che per via della sua origine sa pressappoco tutte e due le

cose…


… come fosse un'anima di Etruschi,

uscita fuori da un morto, che chiuso in uno spazio,

aveva però

la sua figura in riposo per coperchio.

E come è sgomento uno che ha da volare

e viene da un grembo. Come terrorizzato

di se stesso, passa per l'aria indeciso, va

come va un'incrinatura lungo un vaso. Così la traccia

del pipistrello fende la porcellana della sera…


…E noi: spettatori sempre, in ogni dove

sempre rivolti a tutto e mai all'aperto!

Riempircene a spagliare. Lo ordiniamo e frana.

Lo riordiniamo e franiamo anche noi…


… Ma chi ci ha rigirati così

che qualsia quel che facciamo

è sempre come fossimo nell'atto di partire? Come

colui che sull'ultimo colle che gli prospetta per una

volta ancora

tutta la valle, si volta, si ferma, indugia -,

così viviamo per dir sempre addio…


… Ma perchè, se è possibile trascorrere questo pò

d'esistenza come alloro, il verde un pò più

cupo di tutto l'altro verde, le piccole onde ad ogni

margine di foglia (sorriso di brezza) - perché

costringersi all'umano e, evitando il Destino,

struggersi per il Destino?...


.. Oh, non perché ci sia felicità,

quest'affrettato godere di cosa che presto perderai.

Non per curiosità o per esercizio del cuore,

questo, anche nel lauro sarebbe...

Ma perchè essere qui è molto, e perché sembra

che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste

effimere

che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri.

Ogni cosa

una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.

E anche noi

una volta. Mai più. Ma quest'essere

stati una volta, anche una volta sola,

quest'essere stati terreni pare irrevocabile…


… E così ci affanniamo, e lo vogliamo compiere,

vogliamo contenerlo nelle nostre semplici mani,

nello sguardo che ne trabocca e nel cuore che non ha

parola.

Lo vogliamo diventare. A chi darlo? Meglio

tener tutto, per sempre... Ah, nell'altro rapporto, di là,

ahimè, che cosa portiamo? Non il guardare che qui

lentamente imparammo, e nessun avvenimento di qui.

Nessuno.

Allora le pene. Allora soprattutto quel senso di peso,

allora la lunga esperienza d'amore, - allora

soltanto quel ch'è indicibile. Ma poi

fra le stelle, che farne? son tanto meglio indicibili loro,

le stelle.

Anche il viandante dal pendio della cresta del monte,

non porta a valle una manciata di terra,

terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,

pura, la genziana

gialla e blu. Forse noi siamo qui per dire: casa

ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,

al più: colonna, torre... Ma per dire, comprendilo bene

oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,

nell'intimo,

mai intendevano d'essere. Non è forse l'astuzia segreta

di questa terra che sa tacere, quand'essa sollecita gli

amanti così

che ogni cosa, ogni cosa s'esalta nel loro sentire?...


… Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano

logorare un pò la propria soglia di casa già alquanto

consunta,

anche loro, dopo dei tanti di prima,

e prima di quelli di dopo... leggermente…

s nel mondo. i tanto, avventurar

… Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria.

Parla e confessa. Sempre più

vengon meno le cose, quelle da viversi, perché

ciò che le butta per sostituirle è un fare alla cieca.

Un fare sotto croste che docilmente saltano appena che

l'interno lavorio dà fuori e si pone altri limiti.

Tra i magli resiste

il nostro cuore, come resiste

la lingua tra i denti che resta tuttavia, tutto malgrado, per lodare.


… Loda all'Angelo il mondo, non quello indicibile, con lui

non puoi sfoggiare splendore di sentimento; nell'Universo

dove egli sente più sensibilmente, tu sei novizio. E allora

mostragli

quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in

figlio

vive, cosa nostra, alla mano e sotto gli occhi nostri.

Digli le cose. Resterà più stupito; stupito come

rimanesti tu

dinanzi al cordaio a Roma o al vasaio sulle rive del Nilo.

Mostragli quanto una cosa può essere felice, quanto

innocente e nostra,

e come financo il dolore che piange, puro, s'induce a

forma

serve da cosa o muore in farsi cosa…


... E queste cose che vivon di

morire,

lo sanno che tu le celebri; passano

ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più

di tutto.

Vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore

in - oh Infinito - in noi! Qualsia quel che siamo

alla fine.

Terra, non è questo quel che tu vuoi, invisibile

risorgere in noi ? - Non è questo il tuo sogno,

d'essere una volta invisibile? - Terra! invisibile!

Che è mai, se non trasmutamento quello che sì

pressante ci commetti?...


Terra, tu cara, accetto. Oh, credi, non ci sarebbe più

bisogno

delle tue primavere per guadagnarmi a te, una,

ah, una sola è fin troppo per il sangue.

Da lungi e senza nome io mi dichiaro a te.

Tu eri sempre nel giusto, e la tua santa pensata

è la confidenza con la morte…


… Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro

vengon meno... Innumerabile esistere

scaturisce in cuore…



(Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien (1923) trad. it.: Elegie duinesi, trad. di Enrico e Igea De Portu, Einaudi, Torino 1978)