avvenuto più di due
mille anni dopo, in conformità di un’unica logica di potere? Certo è che dal
1974 lo studio del confucianesimo ritrovò un significato politico di primo
rilievo con esiti talora comici: per criticare Confucio, bisognava conoscerlo:
Il gruppo di ricerca messo in piedi a questo scopo era fatto di studenti che
non avevano nessuna competenza in proposito. Vennero perciò riabilitati quegli
stessi professori ‘borghesi” che erano stati crimiaalizzati durante la
Rivoluzione culturale, perché erano gli unici che avevano le cognizioni e
l’erudizione classica necessarie a tale scopo! Qualche volta il sapere è
potere, anche se solo per distruggere la memoria di un politico e per attaccare
indirettamente Zhou Enlai e DengXiaoping, attribuendo loro la qualifica di “confuciani’
Infatti la campagna contro Lin Biao si trasformò in un attacco contro “i
confuciani di oggi” fuori e dentro al partito. Nel frattempo saltò fuori anche
la terza grande corrente filosofica della Cina antica, l’empirismo, il cui
iniziatore nel IV secolo a.C. lii Mozi (cioè, maestro Mo), che sosteneva il
crirerio dell’utilità contro la tradizione rituale. Secondo il moismo,
l’essenziale è la riuscita: non c’è alcuna azione che valga per se stessa o che
abbia il proprio fondamento nella soggettività. Anche questa tendenza
anti-confuciana rappresenta una costante della cultura cinese: non a caso il
filosofo americano John Dewey (1859-1952), uno dei principali esponenti del
pragmatismo, nel suo lungo soggiorno in Cina tra il febbraio1919 e il settembre
tgLI, cercò di fada rivivere come opzione politica. È molto significativo che sia proprio Deng a i’iprenderla in modo emendato e rivisto in una sua
conversazione del 1975: l’empirismo forse non è buono, mal’esperien za sì!
Mutatis mutandis, è come se i politici italiani discutessero se è meglio
lo stoicismo, l’epicureismo O lo scetticismo e promuovessero studi più o meno
tendenziosi su queste tre grandi correnti della filosofia ellenistica. Quando
qualcuno tira fuori la questione dell’impegno e della responsabilità dei nostri
intellettuali, mi viene da ridere per due ragioni. La prima è che questi
intellettuali che si lamentano dì non contare nulla, non corrono alcun
pericolo, mentre in Cina passano dalle stelle alle stalle e viceversa con incredibile
rapidità. La seconda è che nessuno s’interroga sulla responsabilità filosofica
dei nostri politici: penso che, come i correttori di bozze improvvìsati,
confondanO nel migliore dei casi, lo stoicismo con lo storicismo (perchè forse
da giovane qualcuno ha fatro una domanda di borsa di studio all’istituto
Benedetto Croce di Napoli!).
Le ultime vicende prima della morte di Mao, il settembre 1976, n°0 sono
semplicemente una lotta tra le ‘arie fazioni per la successione al “Grande
Timoniere’ Gli incidenti di Piazza Tienanmen del marzo-aprile 1976 ed altre
proteste in altre parti della Cina, rivelano l’insofferenza della maggior parte
dei cinesi di fronte alla possibilità del ripetersi di altre ‘rivoluzioni
cul.turali”. Questa è condivisa anche da una larga parte della classe dirigente
del partito e dell’esercito. Ciò spiega la rapidità con cui si consolida il
potere di Deng Xiaoping, all’insegna dello slogan “la pratica è l’unico crite
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rio della verità’
La fazione più
estremista, nota come “la banda dei
Quatrro’ capeggiata dalla moglie di Mao, Jang Qing, è arrestata il 6 ottobre e
messa sotto processo. La sentenza è già scritta: due condanne a morte
cmr,mutate all’ergastolo una condanna a trenta anni di prigione e un’altra a
venti anni, Com’è noto, la moglie di Mao si uccise in ospedale nel iggi. Le
vittime della Rivoluzione culturale, a cominciare da Liu Shaoqi, presidente
della Repubblica Popolare Cinese fino all’agosto 1966, poi
messo sotto accusa e lasciato morire per incuria dei medici nel novembre 1969,
saranno riabilitate negli anni successivi. Colpisce la drammaticità degli
avvenimenti cinesi che pongono fine alla Rivoluzione culturale: iniziata nel 1966 con lo
slogan politico “eliminare i quattro vecchiumi” (finse che all’inizio nessuno sapeva
cosa volesse dire) finisce con un’azione di polizia militare (che desta un
turbamento collettivo non minore dell’eliminazione di Lin Biao, specie a
Sbanghai, dove la “banda dei quattro” aveva un forte sostegno nel locale
Comitato Rivoluzionario).
In Italia le cose sono andate diversamente: la divisa sessantottesca “eliminare
tutti i vecchiumi” ha avrito il risultato di eliminare quanto di moderno si era
creato in cento annidi storia! Dai primi anni Ottanta questa liquidazione della
modernità si fregia di un nome altisonante: il “postmodetno”. Essa è condotta
dal filosofo Gianni Vattimo con una finezza politico-teorica superiore a quella
del più consumato burocrate cinese. Il termine “postmoderno” era stato
introdotto nella filosofia dal francese Jean-Franois Lyotard (1924-1998), col volume Lo
condizione postmoderna: rapporto sul sapere nel 1979: a suo avviso, la
delegittimaziofle del sapere moderno avrebbe dovuto portare ad una sua
rilegittimazione in chiave ecnologico_pragmatica Vattimo, promotore dell’opera
collettiva Il Pensiero debole, rovescia completamente il punto di vista di
Lyotard e legittima una forma di anti_intellettualismo estremamente raffinata
ed ironica: per lui il postmoderno è nichilistico ed anti-metafisico. il
problema può essere così formulato: il pensiero è debole rispetto a che cosa?
La prima risposta è interna al campo filosofico: il pensiero debole (che
s’ispira a Heidegger) si contrapporrebbe al pensiero “forte” (hegeliano e
marxista) il quale rivendica una posizione di sovranità nei confronti della
politica. La seconda risposta è ancora d’ordine filosofico: il pensiero “forte” non è per niente tale, perchè in
realtà non ha nessuna influenza sulla politica e sulla società, Perciò è un
pensiero millantatore, che si spaccia per ciò che non è, percbè lo stato, i
partiti e le forze produttive non hanno più alcun bisogno di lui, Il confronto
non sarebbe perciò tra pensiero debole e pensiero forte, ma tra pensiero debole
e pensiero debolissiinO. Infine c’è un terzo aspetto che esula dall’ambito
filosofico e riguarda la battaglia culturale e politica nel senso più ampio: il
pensiero debole trova almeno una sponda di ascolto, se non di influenza, nella
politica. Questa si sente finalmente autorizzata ad essere ignorante, a mettere
in soffitta la teoria, a dire e a disdire, a fare e a disfare senza tenere più
in considerazione non dico la coerenza, ma nemmeno la logica, in
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altre parole a
fare della “comunicazione”. Cari lettori (e i lettori ormai devono essere cari,
perché rari, specie se sono arrivati a questo punto del mio pamphlet, anche se
non sono d’accordo con quello che dico, sono “cari” lo stesso), dunque, cari
lettori, vedete come lentamente nel corso dell’ultimo quarantennio si sia
preparato lentamente, partendo da sponde politiche opposte a quelle di
Berlusconi, quella catasti’ofe oscurantista di cui i governi di Berlusconi
costituiscono l’apoteosi! E qui non mi riferisco alla persona di Berlusconi che
si laureò in legge nel 1961, col massimo dei voti alla facoltà di Giurisprudenza
presso l’Università Statale di Milano discutendo una tesi intitolata 11 contratto di pubblicità per inserzione, la quale fu premiata dall’agenzia pubblicitaria Manzoni
di Milano, ma a ciò che rappresenta.
In ultima analisi, il pensiero debole è stato il vero libro “organico” degli
intellettuali italiani degli anni Ottanta, non nel senso che ha istruito o
consigliato i politici dell’epoca, ma proprio al contrario, perché ha
cominciato a liberarli da ogni condizionamento, non dico teorico, che sarebbe
veramente troppo, ma logico, esonerandoli dal principio di non-contraddizione,
facendo loro credere (no! questa parola è troppo per loro, perché suppone che
potessero essere in grado di credere in qualcosa!) perciò correggo, facendo
loro fiutare che questa era la tendenza generale della società. Finalmente
arrivò un filosofo (con tutte le carte in regola e un curriculum
irreprensibile, uno che proveniva da un grande maestro, che aveva tradotto
Heidegger e che si definiva
molto umilmente un “operaio della filosofia”), il quale autorizzava la loro
incoerenza, il loro opportunismo’ la loro ignoranza, che accordava loro il diritto di mettere in
soffitta Gramsci, e tutri quegli insopportabili” Soloni” della sinistra che ancora sproloquiavano sulla
razionalità della storia, sulla lotta di classe e sulla “vecchia talpa”
(metafora adoperata da Marx con riferimento alla rivoluzione). E tutto questo avveniva proprio in nome
di una nuova “filosofia della storia”, secondo la quale si stava aprendo una
nuova età definita “postmoderna” nella quale si poteva dire contemporaneamente
tutto e il contrario di tutto! lo non ho mai avuto l’impressione che essi
fossero in grado di accorgersi che VattimO si prendeva segretamente gioco di
loro, e del resto questa non era per loro allora una cosa importante. Se ne
accorsero più rardi quando lo cooptarono come politico. Negli stessi mesi in
cui in Cina era lanciata una campagna contro “l’inquinamento spiriruale” in
nome del marxismolenini5mo, in Italia si trovava un modo scaltro di passare per
progressisti (il postmoderno non è più progressivo del moderno? Infatti, viene
dopo), infischiandosene non solo della dialettica di Hegel, ma perfino della
logica di Aristotele! La genialità di VattimO, vero e unico eroe filosofico-politico
a cavallo tra i due millenni, consiste nel fatto di essere rimasto nella
sostanza sempre coerente con se stesso, pur sposando nell’apparenza i partiti
più diversi. Vale per lui ciò che diceva il Cardinale di Retz (1613—1679): “Bisogna
cambiare spesso opinione per restare del proprio partito”.
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Tuttavia Confucio avrebbe
rimproverato Vattimo, perché l’uomo di valore (ed egli è indubbiamente tale) è
pronto ad essere mi- sconosciuto senza adombrarsene.
Gli anni che vanno dalla morte di Mao (1976)
al 1989 sono noti come l’epoca del
disgelo intellettuale, della febbre culturale, dell’illuminismo post-maoista,
del ritorno all’armonia confuciana e così via. Certo è che gli intellettuali,
definiti dalla Rivoluzione culturale maoista “la nona categoria puzzolente’
diventano insieme agli operai e ai contadini• “ la spina dorsale della nazione”: viene finalmente espressamente
riconosciuto che, dacché è stata inventata la scrittura, nessuno stato ha mai
potuto funzionare senza il concorso di un gruppo d’intellettuali specializzati.
La teoria delle “tre rappresentatività” (operai, contadini, intellettuali) di
Deng Xiaoping, è connessa col progetto di uno stato socialista cou
caratteristiche cinesi. Non a caso, nel trentennio 1980-2010 escono
in Cina trecento libri e diecimila saggi su Confucio. Come questa rivalutazione
debba essere tradotta in termini operativi, è tuttavia estremamente
controverso. Si assiste dopo il 1980 ad un pullulare di riviste, d’iniziative culturali, di
traduzioni dalle lingue straniere, in parte autorizzate, talvolta illegali, con
un’alternanza di aperture e di chiusure, di concessioni e di repressioni, la
cui logica è molto complessa e suscettibile di opposte interpretazioni. Per
esempio, come deve essere valutata la comparsa nella letteratura, nel cinema,
nella sensibilità collettiva, di prospettive individualistiche estranee alla
tradizione culturale cinese (e certamente a quella confuciana)? Secondo un bimportante storico e filosofo cinese, esiste
tra il marxismo e il confucianesimo, un’affinità elettiva che consiste nel
fatto che entrambe queste filosofie tendono a mettere tra parentesi la soggettività. Naturalmente questo fatto può essere
giudicato positivamente o negativamente a seconda dei punti di vista. Per Li Zehou, ritenuto il più importante pensatore cinese degli ultimi trent’ann, il maoismo
non ha niente che fare con Marx e semmai affonda le sue radici nella tradizione
cinese. secondo Sor-hoon Tan, una filosofa di Singapore che ha studiato con
grande rigore filologico testi confticiani, il pensiero politico di Confucio
sarebbe invece affine alla nozione di democrazia di John Dewey, che, come si è detto, dimorò
in Cina nei primi anni Venti riportando un grande successo e dando vita ad una
corrente politica. Certo è che nel ventennio precedente ai fatti di Piazza Tienanmen del 4giugnol989’ la distinzione tra intellettuali
interni al sistema ed intellettuali dissidenti è molto fluida. Senza voler
minimamente giustificare la repressione violenta del movimento degli studenti, esiste una
impressionante continuità tra il movimento del 4 maggio 1919, la
rivoluzione cultutale maoista (1966-197fi) e la protesta studentesca del 1988-9, culminata con l’eccidio del giugno 1989, tutte all’insegna del
rifiuto della mediazione culturale confuciana. sebbene molti intellettuali
siano stati accusati di aver fomentato la rivolta, è ormai riconosciuto che
essi hanno cercato piuttostO di fermare gli studenti, ma non sono stati
ascoltati da loro. Sia dalla parte del potere che temeva che la Cina si
disgregasse
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(come avvenne un paio
d’anni dopo alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica), sia
dalla parte degli studenti, in preda ad un infantilismo spontaneistico simile a
quello parigino del maggio 1968, prevalsero le tendenze più estremistiche, ricacciando
ancora una volta molti intellettuali in un vicolo cieco che si è protratto
nei decenni successivi, costringendo molti di loro all’esilio.
Processi di civilizzazione in Cina e d’imbarborimento in ItaliaIl contributo teorico più rilevante della vittoria del confucianesimo in Cina mi sembra l’importanza assegnata all’idea di quolità (suzhi). (..)