venerdì 9 dicembre 2011

Cari lettori


avvenuto più di due mille anni dopo, in conformità di un’unica logica di potere? Certo è che dal 1974 lo studio del confucianesimo ritrovò un significato politico di primo rilievo con esiti talora comici: per criticare Confucio, bisognava conoscerlo: Il gruppo di ricerca messo in piedi a questo scopo era fatto di studenti che non avevano nessuna competenza in proposito. Vennero perciò riabilitati quegli stessi professori ‘borghesi” che erano stati crimiaalizzati durante la Rivoluzione culturale, perché erano gli unici che avevano le cognizioni e l’erudizione classica necessarie a tale scopo! Qualche volta il sapere è potere, anche se solo per distruggere la memoria di un politico e per attaccare indirettamente Zhou Enlai e DengXiaoping, attribuendo loro la qualifica di “confuciani’ Infatti la campagna contro Lin Biao si trasformò in un attacco contro “i confuciani di oggi” fuori e dentro al partito. Nel frattempo saltò fuori anche la terza grande corrente filosofica della Cina antica, l’empirismo, il cui iniziatore nel IV secolo a.C. lii Mozi (cioè, maestro Mo), che sosteneva il crirerio dell’utilità contro la tradizione rituale. Secondo il moismo, l’essenziale è la riuscita: non c’è alcuna azione che valga per se stessa o che abbia il proprio fondamento nella soggettività. Anche questa tendenza anti-confuciana rappresenta una costante della cultura cinese: non a caso il filosofo americano John Dewey (1859-1952), uno dei principali esponenti del pragmatismo, nel suo lungo soggiorno in Cina tra il febbraio1919 e il settembre tgLI, cercò di fada rivivere come opzione politica. È molto significativo che sia proprio Deng a i’iprenderla in modo emendato e rivisto in una sua conversazione del 1975: l’empirismo forse non è buono, mal’esperien za sì! 

Mutatis mutandis, è come se i politici italiani discutessero se è meglio lo stoicismo, l’epicureismo O lo scetticismo e promuovessero studi più o meno tendenziosi su queste tre grandi correnti della filosofia ellenistica. Quando qualcuno tira fuori la questione dell’impegno e della responsabilità dei nostri intellettuali, mi viene da ridere per due ragioni. La prima è che questi intellettuali che si lamentano dì non contare nulla, non corrono alcun pericolo, mentre in Cina passano dalle stelle alle stalle e viceversa con incredibile rapidità. La seconda è che nessuno s’interroga sulla responsabilità filosofica dei nostri politici: penso che, come i correttori di bozze improvvìsati, confondanO nel migliore dei casi, lo stoicismo con lo storicismo (perchè forse da giovane qualcuno ha fatro una domanda di borsa di studio all’istituto Benedetto Croce di Napoli!). 
Le ultime vicende prima della morte di Mao, il settembre 1976, n°0 sono semplicemente una lotta tra le ‘arie fazioni per la successione al “Grande Timoniere’ Gli incidenti di Piazza Tienanmen del marzo-aprile 1976 ed altre proteste in altre parti della Cina, rivelano l’insofferenza della maggior parte dei cinesi di fronte alla possibilità del ripetersi di altre ‘rivoluzioni cul.turali”. Questa è condivisa anche da una larga parte della classe dirigente del partito e dell’esercito. Ciò spiega la rapidità con cui si consolida il potere di Deng Xiaoping, all’insegna dello slogan “la pratica è l’unico crite 


40/41

rio della verità’ La fazione più estremista, nota come “la banda dei Quatrro’ capeggiata dalla moglie di Mao, Jang Qing, è arrestata il 6 ottobre e messa sotto processo. La sentenza è già scritta: due condanne a morte cmr,mutate all’ergastolo una condanna a trenta anni di prigione e un’altra a venti anni, Com’è noto, la moglie di Mao si uccise in ospedale nel iggi. Le vittime della Rivoluzione culturale, a cominciare da Liu Shaoqi, presidente della Repubblica Popolare Cinese fino all’agosto 1966, poi messo sotto accusa e lasciato morire per incuria dei medici nel novembre 1969, saranno riabilitate negli anni successivi. Colpisce la drammaticità degli avvenimenti cinesi che pongono fine alla Rivoluzione culturale: iniziata nel 1966 con lo slogan politico “eliminare i quattro vecchiumi” (finse che all’inizio nessuno sapeva cosa volesse dire) finisce con un’azione di polizia militare (che desta un turbamento collettivo non minore dell’eliminazione di Lin Biao, specie a Sbanghai, dove la “banda dei quattro” aveva un forte sostegno nel locale Comitato Rivoluzionario). 

In Italia le cose sono andate diversamente: la divisa sessantottesca “eliminare tutti i vecchiumi” ha avrito il risultato di eliminare quanto di moderno si era creato in cento annidi storia! Dai primi anni Ottanta questa liquidazione della modernità si fregia di un nome altisonante: il “postmodetno”. Essa è condotta dal filosofo Gianni Vattimo con una finezza politico-teorica superiore a quella del più consumato burocrate cinese. Il termine “postmoderno” era stato introdotto nella filosofia dal francese Jean-Franois Lyotard (1924-1998), col volume Lo condizione postmoderna: rapporto sul sapere nel 1979: a suo avviso, la delegittimaziofle del sapere moderno avrebbe dovuto portare ad una sua rilegittimazione in chiave ecnologico_pragmatica Vattimo, promotore dell’opera collettiva Il Pensiero debole, rovescia completamente il punto di vista di Lyotard e legittima una forma di anti_intellettualismo estremamente raffinata ed ironica: per lui il postmoderno è nichilistico ed anti-metafisico. il problema può essere così formulato: il pensiero è debole rispetto a che cosa? La prima risposta è interna al campo filosofico: il pensiero debole (che s’ispira a Heidegger) si contrapporrebbe al pensiero “forte” (hegeliano e marxista) il quale rivendica una posizione di sovranità nei confronti della politica. La seconda risposta è ancora d’ordine filosofico: il pensiero “forte” non è per niente tale, perchè in realtà non ha nessuna influenza sulla politica e sulla società, Perciò è un pensiero millantatore, che si spaccia per ciò che non è, percbè lo stato, i partiti e le forze produttive non hanno più alcun bisogno di lui, Il confronto non sarebbe perciò tra pensiero debole e pensiero forte, ma tra pensiero debole e pensiero debolissiinO. Infine c’è un terzo aspetto che esula dall’ambito filosofico e riguarda la battaglia culturale e politica nel senso più ampio: il pensiero debole trova almeno una sponda di ascolto, se non di influenza, nella politica. Questa si sente finalmente autorizzata ad essere ignorante, a mettere in soffitta la teoria, a dire e a disdire, a fare e a disfare senza tenere più in considerazione non dico la coerenza, ma nemmeno la logica, in

42/43
altre parole a fare della “comunicazione”. Cari lettori (e i lettori ormai devono essere cari, perché rari, specie se sono arrivati a questo punto del mio pamphlet, anche se non sono d’accordo con quello che dico, sono “cari” lo stesso), dunque, cari lettori, vedete come lentamente nel corso dell’ultimo quarantennio si sia preparato lentamente, partendo da sponde politiche opposte a quelle di Berlusconi, quella catasti’ofe oscurantista di cui i governi di Berlusconi costituiscono l’apoteosi! E qui non mi riferisco alla persona di Berlusconi che si laureò in legge nel 1961, col massimo dei voti alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Statale di Milano discutendo una tesi intitolata 11 contratto di pubblicità per inserzione, la quale fu premiata dall’agenzia pubblicitaria Manzoni di Milano, ma a ciò che rappresenta. 


In ultima analisi, il pensiero debole è stato il vero libro “organico” degli intellettuali italiani degli anni Ottanta, non nel senso che ha istruito o consigliato i politici dell’epoca, ma proprio al contrario, perché ha cominciato a liberarli da ogni condizionamento, non dico teorico, che sarebbe veramente troppo, ma logico, esonerandoli dal principio di non-contraddizione, 
facendo loro credere (no! questa parola è troppo per loro, perché suppone che potessero essere in grado di credere in qualcosa!) perciò correggo, facendo loro fiutare che questa era la tendenza generale della società. Finalmente arrivò un filosofo (con tutte le carte in regola e un curriculum irreprensibile, uno che proveniva da un grande maestro, che aveva tradotto Heidegger e che si definiva molto umilmente un “operaio della filosofia”), il quale autorizzava la loro incoerenza, il loro opportunismo’ la loro ignoranza, che accordava loro il diritto di mettere in soffitta Gramsci, e tutri quegli insopportabili” Soloni” della sinistra che ancora sproloquiavano sulla razionalità della storia, sulla lotta di classe e sulla “vecchia talpa” (metafora adoperata da Marx con riferimento alla rivoluzione). E tutto questo avveniva proprio in nome di una nuova “filosofia della storia”, secondo la quale si stava aprendo una nuova età definita “postmoderna” nella quale si poteva dire contemporaneamente tutto e il contrario di tutto! lo non ho mai avuto l’impressione che essi fossero in grado di accorgersi che VattimO si prendeva segretamente gioco di loro, e del resto questa non era per loro allora una cosa importante. Se ne accorsero più rardi quando lo cooptarono come politico. Negli stessi mesi in cui in Cina era lanciata una campagna contro “l’inquinamento spiriruale” in nome del marxismolenini5mo, in Italia si trovava un modo scaltro di passare per progressisti (il postmoderno non è più progressivo del moderno? Infatti, viene dopo), infischiandosene non solo della dialettica di Hegel, ma perfino della logica di Aristotele! La genialità di VattimO, vero e unico eroe filosofico-politico a cavallo tra i due millenni, consiste nel fatto di essere rimasto nella sostanza sempre coerente con se stesso, pur sposando nell’apparenza i partiti più diversi. Vale per lui ciò che diceva il Cardinale di Retz (1613—1679): “Bisogna cambiare spesso opinione per restare del proprio partito”. 

44/45

Tuttavia Confucio avrebbe rimproverato Vattimo, perché l’uomo di valore (ed egli è indubbiamente tale) è pronto ad essere mi- sconosciuto senza adombrarsene. 
Gli anni che vanno dalla morte di Mao (1976) al 1989 sono noti come l’epoca del disgelo intellettuale, della febbre culturale, dell’illuminismo post-maoista, del ritorno all’armonia confuciana e così via. Certo è che gli intellettuali, definiti dalla Rivoluzione culturale maoista “la nona categoria puzzolente’ diventano insieme agli operai e ai contadini• “ la spina dorsale della nazione”: viene finalmente espressamente riconosciuto che, dacché è stata inventata la scrittura, nessuno stato ha mai potuto funzionare senza il concorso di un gruppo d’intellettuali specializzati. La teoria delle “tre rappresentatività” (operai, contadini, intellettuali) di Deng Xiaoping, è connessa col progetto di uno stato socialista cou caratteristiche cinesi. Non a caso, nel trentennio 1980-2010 escono in Cina trecento libri e diecimila saggi su Confucio. Come questa rivalutazione debba essere tradotta in termini operativi, è tuttavia estremamente controverso. Si assiste dopo il 1980 ad un pullulare di riviste, d’iniziative culturali, di traduzioni dalle lingue straniere, in parte autorizzate, talvolta illegali, con un’alternanza di aperture e di chiusure, di concessioni e di repressioni, la cui logica è molto complessa e suscettibile di opposte interpretazioni. Per esempio, come deve essere valutata la comparsa nella letteratura, nel cinema, nella sensibilità collettiva, di prospettive individualistiche estranee alla tradizione culturale cinese (e certamente a quella confuciana)? Secondo un bimportante storico e filosofo cinese, esiste tra il marxismo e il confucianesimo, un’affinità elettiva che consiste nel fatto che entrambe queste filosofie tendono a mettere tra parentesi la soggettività. Naturalmente questo fatto può essere giudicato positivamente o negativamente a seconda dei punti di vista. Per Li Zehou, ritenuto il più importante pensatore cinese degli ultimi trent’ann, il maoismo non ha niente che fare con Marx e semmai affonda le sue radici nella tradizione cinese. secondo Sor-hoon Tan, una filosofa di Singapore che ha studiato con grande rigore filologico testi confticiani, il pensiero politico di Confucio sarebbe invece affine alla nozione di democrazia di John Dewey, che, come si è detto, dimorò in Cina nei primi anni Venti riportando un grande successo e dando vita ad una corrente politica. Certo è che nel ventennio precedente ai fatti di Piazza Tienanmen del 4giugnol989’ la distinzione tra intellettuali interni al sistema ed intellettuali dissidenti è molto fluida. Senza voler minimamente giustificare la repressione violenta del movimento degli studenti, esiste una impressionante continuità tra il movimento del 4 maggio 1919, la rivoluzione cultutale maoista (1966-197fi) e la protesta studentesca del 1988-9, culminata con l’eccidio del giugno 1989, tutte all’insegna del rifiuto della mediazione culturale confuciana. sebbene molti intellettuali siano stati accusati di aver fomentato la rivolta, è ormai riconosciuto che essi hanno cercato piuttostO di fermare gli studenti, ma non sono stati ascoltati da loro. Sia dalla parte del potere che temeva che la Cina si disgregasse 

46/47
(come avvenne un paio d’anni dopo alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica), sia dalla parte degli studenti, in preda ad un infantilismo spontaneistico simile a quello parigino del maggio 1968, prevalsero le tendenze più estremistiche, ricacciando ancora una volta molti intellettuali in un vicolo cieco che si è protratto nei decenni successivi, costringendo molti di loro all’esilio.
Processi di civilizzazione in Cina e d’imbarborimento in Italia
Il contributo teorico più rilevante della vittoria del confucianesimo in Cina mi sembra l’importanza assegnata all’idea di quolità (suzhi). (..)