giovedì 30 giugno 2011

alla panchina



brillare come palle da biliardo, Voltandosi, Morse vide dietro di sé la tribuna principale, coperta e quasi vuota. Si avviò all’ingresso e acquistò un biglietto.
Alla fine del primo tempo l’Oxford perdeva due a zero e, nonostante si fosse più volte guardato intorno, Morse non era riuscito a individuare Lewis. Per tutto il prìmo tempo, mentre il centrocampo e le aree di rigore si erano trasformate in pantani fangosi, Morse non aveva smesso un attimo di pensare. Un’improbabile, illogica illusione si faceva tempre più strada nella sua mente, ora rivolta alla torre di St Frideswide come attratta da un campo magnetico, e il fatto che egli stesso non riuscisse a individuare i presupposti, non faceva che rafforzarla. Aveva disperatamente bisogno di Lewis.
L’arbitro, che con la maglia e i calzoncini lucidi di pioggia sembrava indossare una muta da sub, uscì di nuovo a ispezionare il campo, salutato dn un coro cacofonico di fischi e parolacce. Morse guardò l’orologio sul gigantesco tabellone: le venti e venti. Valeva la pena di restare?
Da dietro, una mano lo afferrò per la spalla. — Lei deve essere matto, signore.
Lewis scavalcò il sedile e si accomodò accanto al suo capo.
Morse aveva riacquistato il buonumore. — Ascolta, Lewis, ho bisogno del tuo aiuto. Che ne dici?
— Quando vuole, signore. Sa come sono fatto. Ma lei non è in...?
— 
Quando voglio?
Un velo di delusione cadde sugli occhi di Lewis. — Non vorrà mica dire? — Sapeva esattamente quello che Morse voleva dire. -
—Tanto state perdendo, per ora.
— Un po’ sfortunati nel primo tempo, non le sembra?
— Soffri di vertigini, per caso? — chiese Morse.
St Giles era semideserto, come le strade intorno al campo di calcio, e le due auto trovarono facilmente parcheggio di fronte al St John’s College,
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