…intanto ti accludo un breve testo che apparirà sul numero 38
(dicembre-gennaio 2007) della rivista «Duellanti», diretta da Gianni
Canova che dovrebbe essere indicativo. Questa rivista (editata da oltre
15 anni, prima si chiamava «Duel») tratta di cinema e di «slittamenti»,
cose di cui io mi occupo da una vita, soprattutto riguardo agli
«slittamenti». Non so se avrai voglia di leggere questo scritto (breve,
ma complesso), ti segnalo però che l’«essenza» di tutto il discorso sta
nelle ultime cinque righe, che riguardano appunto lo slittamento più
cruciale, e che sono l’anticipazione (certo un po’ ermetica) di una
riflessione più in profondità, che peraltro serpeggia in tutto il mio
«vecchio» libro.
Il resto rappresenta il sunto di una ricerca ormai abbastanza
lunga sul piano di una «ontologia del digitale» – e soprattutto della
sua incidenza sul concetto di forza lavoro, e conseguentemente sulla
forma generale del lavoro attuale, cioè precario – che ho già avuto modo
di pubblicare a sprazzi qua e là. Ora mi fermo. Appena sarà possibile
ne parleremo…
Di tutti gli equivoci appiccicati alle nuove tecnologie, i più
insidiosi sono certamente quelli relativi allo statuto della cosiddetta
immagine digitale. In particolare, intorno a un tema che dovrebbe ormai
essere venuto a fuoco nitidamente – quello relativo alla differenza
ontologica tra immagine analogica (fotografica e fotodinamica) e
immagine numerico-digitale – tali equivoci appaiono paradigmatici di una
difficoltà reale nell’elaborare concettualmente un simile nodo
tematico.
La critica più accorta – quella che ha percepito il problema e si è
posizionata davanti a una simile (invisibile) differenza ontologica –
sembra inchiodata alla questione, certo importante, della cosiddetta
“verità” o “sincerità” dell’oggetto visivo, che però si mostra anche
l’unico terreno sul quale la stessa critica pare disposta a spingersi e a
prospettare un qualche giudizio. Si tratta, come è noto, di un semplice
constatare la scomparsa della traccia, o impronta sensibile,
dall’immagine digitale; traccia invece da sempre conservata
nell’immagine analogica grazie alla stessa struttura tecnica
dell’apparecchio di ripresa (camera, otturatore, diaframma, pellicola
fotosensibile eccetera). Detto di passaggio, ai fini di una definizione
minimamente rigorosa, ci sarebbe da chiedersi se sia ancora appropriato
– al di là dell’abitudine – chiamare foto-grafia un’istantanea scattata con una macchina mediante la quale la luce emanata dal soggetto (insieme con i suoi tratti) è calcolata e immagazzinata in un file, e non più impressa, ovvero in-scritta, necessariamente e automaticamente in un supporto sensibile.
In ogni caso, quel constatare di cui sopra è ineludibile: l’oggetto
concreto – ciò che è stato davanti all’obiettivo, per dirla
barthesianamente – non è affatto necessario all’immagine digitale, la
quale, al contrario di quella analogica, si costituisce come
potenzialmente autoreferenziale. Tuttavia, un tale obbligato constatare
sembra essere anche l’unico atto critico: una semplice
intuizione del differente fondamento d’essere nei due tipi di immagine
tecnica, per lo più inconsapevole della radicalità (e abissalità) di
tale differenza: una riflessione che alla fine rimane, per così dire, al
palo.
La critica, sembra piuttosto interessata a una battaglia contro i
luoghi comuni generati dalla circolarità e dalla ripetitività quasi
rituale di un discorso ossificato intorno all’antinomia analogico-digitale, (quasi) sempre coniugata in coppia con l’antinomia vero-falso.
È il lato più innegabile ed evidente del problema, e però anche il più
periferico, e per giunta banalizzato in una formula di tipo mediatico: verità dell’immagine analogica, in quanto impronta geneticamente costituita nell’oggetto sensibile; impostura (potenziale) dell’immagine digitale, in quanto costituita in se stessa, ovvero autogenetica.
La critica sembra anzi volerci dire che tali antinomie rappresentano ormai un dogma,
pur evidenziando – e non potrebbe essere altrimenti – come l’immagine
numericamente formattata sia sempre trasformabile, ovvero manipolabile.
D’altronde, di questa evidenza si mostra perfettamente cosciente anche
un regista come Steven Sodeberg quando inserisce in Ocean’s Thirteen
una scena, probabilmente irrilevante per la maggior parte del pubblico
(ma anche degli addetti ai lavori), che in realtà risulta piuttosto
emblematica. Si tratta della manipolazione, mostrata direttamente sullo
schermo, di alcune fotografie formato tessera allo scopo di alterare le
fisionomie dei soggetti fino a renderli irriconoscibili.
È ben vero che una tale evidenza non è altro che un dato
oltre il quale l’analisi parrebbe impossibilitata a procedere, e che
proprio per questo stallo precipita rapidamente nella stucchevolezza.
Quindi è un gioco facile dichiarare quelle antinomie come “puramente
formali”, in quanto separate dal nesso sociale in cui esse si generano e
si inscrivono, che fonderebbe la garanzia veritativa
dell’immagine, vale a dire il “patto stipulato” tra chi guarda, cioè
si trova di fronte all’immagine stessa, e chi quell’immagine ha
costituito o contribuito a costituire. Ne consegue che la violazione di
un tale patto, ovvero la manipolazione dell’immagine, sarebbe
semplicemente un tradimento, ossia un atto di manifesta immoralità.
Il che risulta eticamente ineccepibile. Per esempio, quale è il
fondamento d’essere delle immagini digitali di piazza Alimonda a Genova
quel 21 luglio 2001, che catturano gli attimi precedenti il colpo di
pistola che spegnerà la vita di Carlo Giuliani? Su quale base si
costituisce la certezza che esse rimandano a un evento reale, a qualcosa che è stato concretamente? Questa certezza si fonda sulla storia, cioè sul dato storico costituito dall’esperienza vissuta da moltitudini di persone presenti in carne e ossa: esse, e non lo statuto, nè la natura dell’immagine tecnologica, e neppure la sua potenziale ripetizione e moltiplicazione all’infinito.
Tuttavia è da chiedersi se le domande che sorgono – e a quanto pare
si allargano – intorno alla tecnologia digitale di
produzione/riproduzione dell’immagine richiedano una riflesione nei
termini di un problema di ordine morale, o tuttalpiù di natura deontologica.
Su questo, purtroppo, il panorama che offre la critica in generale è
soprattutto di una sorprendente chiusura ermeneutica, perfino incapace
di sospettare le profondità del problema. D’altra parte la stessa
critica più acuta (va da sé che ci stiamo riferendo al peraltro notevole
intervento di Franco Marineo su n. 36 di “Duellanti”) ci ricorda come
l’evento fotografico sia sempre stato simulazione e falsificazione anche
con la vecchia tecnica analogica, solo intrinsecamente più “sincera”.
Viene presa come esempio di un tale e ben noto processo manipolatorio
una celebre epica immagine “ambigua”, forse “simulata”, quella che
rappresenta i soldati americani che issano la bandiera sul monte
Suribachi di Iwo Jima, la più feroce battaglia della guerra nel
Pacifico. Un immagine problematica, di cui viene ricostruita la vicenda
nel film Flags of Our Father di Clint Eastwood. Come è noto,
non è dato sapere se si tratta della fotografia scattata al primo
alzabandiera, in quel momento drammatico della conquista, o invece del
secondo alzabandiera documentato dal reporter Rosentalh, oppure del
terzo (tre, infatti, sono stati gli alzabandiera), o magari di una foto
scattata successivamente. Dal punto di vista del patriottismo americano,
la cosa importa nulla: si trattava, essenzialmente, di costruire
un’immagine mitologica e leggendaria, non di sbandierare il valore di
testimonianza storico-reale di quella stessa immagine.
Però, bisogna dire che proprio un tale esempio si rivela denso di
aporie. Perché si tratta pur sempre di una fotografia scattata con
apparecchiatura analogica (a quel tempo non poteva essere altrimenti)
che certifica non già l’autenticità del gesto simbolico compiuto da quei soldati nell’issare la bandiera a stelle e strisce, ma bensì l’autenticità del loro essere stati inconfutabilmente di fronte a quell’obiettivo di quel
fotografo. Proprio in questa fotografia magari “autentica”, o magari
“insincera” in quanto finalizzata non a documentare la verità di un
evento ma a trasfigurarlo in un oggetto di natura puramente ideologica;
proprio in questa immagine “indecidibile” si ripresenta – ineliminabile –
l’essere dell’impronta: forse quella dei soldati che hanno davvero compiuto il primo alzabandiera, o forse quella dei “supplenti”, certamente e necessariamente quella dei loro corpi, non importa quali. E’ questo il nodo da cogliere: quei corpi sono stati
davanti all’obiettivo con assoluta certezza. Tanto, che questo si può
dire dell’”antiquata” tecnologia analogica: che con essa non è possibile
nessun falso ontologico.
Per questo è del tutto vano ridurre a pura questione etica quello che si mostra come un complesso problema estetico, relativo alla percezione sensibile (aisthesis). Ne va del rapporto estetico-sensibile di un corpo parimenti estetico-sensibile con l’oggetto dell’esperienza, ovvero con la cosa. Sono in gioco le modalità dell’afferramento
dell’oggetto, ovvero le modalità proprie dell’oggetto, della cosa
stessa, nell’offrirsi alla percezione (ossia – ma è lo stesso – della
percezione nell’appropriarsi l’oggetto). Insomma, è in gioco –
nientemeno – il tema dell’essente materiale. E anche il tema del rapporto che si istituisce tra un tale essente e le forme del pensiero (ma su questo fermiamoci qui).
Poiché l’immagine informatizzata non reca in sé alcun fondo concreto-sensibile, in un certo senso essa mostra… occultando. Anzi, esibisce l’imponderatezza del suo fondo, la labilità del visibile circoscritto nel campo del fotogramma, e in ultima istanza pretende un atto di fiducia intorno ad esso, cioè impone – appunto – un patto, un atto di fede, un compromesso morale tra gli attori. Infatti, il suo fondo
non può lasciare traccia – per definizione – in nessun elemento
costitutivo capace di certificare con la forza della necessità l’essere materiale
del soggetto, se non nelle trame incorporee di un ineffabile e
inafferrabile rizoma numerico. Dunque, quanto alla certezza
dell’oggetto, è solo l’atto soggettivo di colui che agisce l’immagine – di colui che “cattura” l’immagine – che qui entra in gioco: percezione dell’oggetto reale nella forma “intellettiva” di tale percezione. Si tratta della ben nota intenzionalità del pensiero (della coscienza) che la tradizione fenomenologica definisce come percezione noetica (e naturalmente chiunque può sospendere il giudizio su tale definizione).
Perché, come è evidente per ogni cultore di immagini novecentesche, c’è un noema nella foto analogica, come appunto sosteneva Barthes in La camera chiara: si tratta proprio di quel percepire, di quell’è stato del soggetto, di quella certezza che quel soggetto – persona o altro – è stato necessariamente davanti all’obiettivo, lasciando materialmente l’impronta di sè. Ma c’è un noema nell’immagine digitale? Non si tratta di un interrogativo capzioso, dato che “il fondamento ontologico” di quell’immagine – il mondo esperito di quella visione, per dir così – è in sé incerto, instabile, volatile, e alla fine indecidibile, anche perchè sempre esposto al divenire
nella possibilità della trasformazione (tecno-artificiale). In termini
fenomenologici si potrebbe dire in questo modo paradossale: il noema non ha certezza del suo contenuto noematico.
La percezione riflessiva, ovvero l’intenzionalità della coscienza,
non può eliminare il fatto che si tratta pur sempre di coscienza di qualche cosa, vale a dire della cosa che si offre essa stessa alla percezione. Ma su quale statuto si fonda la certezza che sussista una cosa nell’immagine numerica, e che tale cosa sensibile si offra essa stessa all’immagine, cioè alla percezione? Qui, di fatto, l’atto soggettivo di colui che fruisce l’immagine, cioè l’atto dell’altra coscienza intenzionale, è (potenzialmente) fuori gioco, e quindi senza afferramento.
Gli appassionati misuratori di pixel non si allarmino: l’ibridazione,
il meticciato, la sovrapposizione e perfino la fusione artefatta di
immagini spurie, adesso abitano definitivamente il cinema – questo
oggetto ormai parimenti meticcio e ibrido – e con risultati spesso
straordinari sul piano iconico, linguistico e narrativo, come dimostrano
– valgano per tutti gli altri – i più recenti film di Michael Mann, in
particolare Collateral, o l’ultimo di Robert Zemeckis, Beowulf,
che spinge molto in avanti le performance motroniche, cioè la
tecnologia che trans-duce la figura degli attori in immagini
computerizzate. In fin dei conti, si tratta solo di un tema fenomenologico,
che la critica non è tenuta ad affrontare. Purché prenda coscienza
della questione cruciale che l’artefazione digitale lascia intravedere:
non un problema etico, ma bensì teoretico, cioè politico.
Del resto, ne va di ben altro. Per esempio, ne va
dell’imponderabilità dell’oggetto informatico – visibile/invisibile – in
rapporto al processo lavorativo e alle figure del lavoro vivo, divenute
intricate come un rizoma (e prima ancora in rapporto al concetto stesso
di forza-lavoro già di per sé ostico); e ne va anche di “cosa” e
“quanto” di tale imponderabilità/invisibilità entra oggi nel processo di
valorizzazione. Ma questo è un altro discorso.