Si sa che Roma,l’enorme ibrido, ha di tutto: basiliche sotto il livello dell’acqua, una piramide, giardini pensili — e un sanatorio sul quale un’alta torre di ferro brucia nero petrolio da un’alba all’altra. Pochi sanno che in una piazza tristissima, tra le meglio sfigurate dai secoli, dall’urbanistica, dalla vita, Roma ha una «rovina circolare».
La forma di questo piccolo rudere bruno-terra è a raggera, o per dir meglio a foglia di palma: diversi [i bracci, un tempo forse corridoi, convergono ad una piccola porta. Esso fu un minuscolo tempio alchemico una cappella di cabalisti cristiani edificata nel secolo XVII dal Marchese di Palombara e frequentata, fra personaggi più o meno mal conosciuti, da Cristina di Svezia. Oggi, d’intatto non resta che la porta. E ricordato infatti, quel monumento, come la Porta Magica.
In realtà quella porta, accecata di mattoni rossi, non porta più a nessun luogo. Pagina sigillata, solo intorno agli orli, lungo la chiara cornice di marmo corrono ancora parole: simili a uccelli neri e bianchi che, immobili sulle ali, si reggano a mezz’aria fra la
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terra e il cielo: Quando in tua domo nigri corvi Parturient albas columbas tunc vocaberis sapiens... Qui scit comburere aqua ce lavare igne facit de terra coelum et de coelo terram pretiosam...
Ho detto della piazza dove si trova questa rovina. Non ho detto che è vicinissima alla Stazione Centrale, vale a dire, in una metropoli, ad uno dei più infetti scoli urbani. La piazza stessa è una spirale (li gironi. All’esterno c’è la parete di rosse carni, piumaggi madidi, scaglie, sozzi grembiuli (ma anche corolle di puro ghiaccio, glauche foglie e radici) di un mercato permanente. Più all’interno, un parco per bambini: nient’altro, su quel che resta di aiuole, che un villaggio di cartapesta pitturato alla brava, con intenzione apertamente umoresca (il bambino d’oggi deve capire a volo che il gioco non è più una visione, è un ammicco). Quei cartoni sbilenchi propongono all’infanzia dell’antichissima stirpe piccoli e tristi deliri d’altri mondi (e per di più morti anche quelli): il saloon texano, la banca delle pepite, il trenino dei minatori e così via.
Abita inoltre in quella piazza, su rami freddi e netti, una pingue costellazione di gatti: preservati dai ruderi, dal mercato, sopratutto alla vicina stazione (chi vive vicino ad una stazione — chi arrivò e non poté ripartire, chi poteva ripartire e non seppe, e chi prospera su queste impossibili permanenze e partenze: la chiromante, l’astrologo, il guaritore, l’usuraio — osserva per tradizione tutto un levitico di tabù: primo fra tutti la vita arcana, vagamente pericolosa, del gatto).
Si aggira infine, là intorno, un magro, onnipresente popolo di ragazzi: adolescenti misteriosi ed ovvii, a mani in tasca su un angolo, riversi su un braccio di rovina, il
berretto sul viso; o tra le mani il secchio d’acqua incarnatina, coperta di squame azzurre, la scopa che incanala verso la fogna una colluvie bruna, ammoniacale.
Quella piazza può sembrare il luogo geometrico
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per eccellenza di coloro che Proust chiamò i collezionisti di maschere del reale: gli scrittori di parvenze, gli scrittori realisti. C’è tutto: denti acuti di gatto che lacerano gialli visceri, sentore di piumago, sale, umori, misto a quello malato, vergine dei Latticini, all’aroma un poco mortuario dei giacinti recoci. In quell’aria sulfurea e decomposta di tristi ridi infantili, sguardi pesanti, cicche sputate lontano. C’è, però, la Porta Magica. È chiaro che a tali scrittori essa si renderebbe subito invisibile; ed è ancora più chiaro che senza la Porta Magica l’intera piazza scompare.
Dei gatti alti sui rami non resterebbe, in pochi istanti,che il riso — come quello del Ghignagatto di Alice, come quello forse che gli alchimisti attribuivano a Mercurio.
Del sedimento putrido del mercato resterebbe nell’aria uno spruzzo di neve: l’anima del prunus bianco. E di umano statua funeraria, riversa là sul braccio di rovi- il berretto sul viso diventato maschera d’oro.
(Horti magici ingressum Hesperidum custodit draco et sine Alcide Colchicas delicias non gustasset Iason).
In quella piazza pitagorico-viscerale pensai a Borges: al suo gesto di ierofante che ripete quello dell’uomo figurato, come egli stesso racconta, sopra la mappa gnostica; un indice teso al cielo, uno alla terra.
Ricordai la straziante, l’impassibibe parola con la quale egli ha forse sigillato per molti secoli le labbra della poesia contemporanea, così come un giorno fu sigillata la Porta Magica: «Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presnppone un passato che gli interlocutori condividono»
(Chi condivide oggi quel passato? Chi quell’alfabeto di simboli? Vi è un passato? Vi sono simboli? Dove, dunque, il nostro linguaggio?).
Non altrimenti che la piccola Porta Magica, cieco quasi impercepibile nel suo alfabeto perduto, stava il principesco Borges: centro murato di una «rovina circolare» che l’occhio, ridotto ormai a
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un’unica dimensione, sfiora senza supporla. (Est opus occultum veri sopiti aperire terram ut germinet salutem..).
Stranieri vengono ancora in pellegrinaggio alla Porta Magica, trascrivono in piccoli taccuini le alte sentenze. Sanno bene, costoro, che solo dalla Porta Magica la piazza trae ancora la sua virtù e misura. La piazza — questo mortale presente che insieme con la Porta Magica distrugge sé medesimo: abbiettamente, innocentemente.
«Considerai che eravamo, come sempre, alla fine dei tempi» .
208 SENSI SOPRANNATURALI