LE DONNE DI GADDA
pag 66Non diciamo d’un birro, d’un federaloso stivaluto, coltelluto sul ventre e ricattatore della provincia radunata coi «presente! » urlati nei raduni: neri, tetri, funerari raduni di certamente prestanti giovani, ma travestiti per l’occasione in nerobandati beccamorti.
Il grido ku-ce ku-ce, ch’era il precipuo tra i doveri ufficiali del maritiello arzillo (arzillo dati i raggiunti o raggiungibili spaghetti), il ku-ce ku-ce maritale propietanza divenne grido esasperato, fuor della strozza della gentile coniugata che di quel grido aveva subito inteso venire in tavola fumo e arrosto e fiato bastevole a emettere il grido medesimo.
Dall’entusiasmo metà vero metà simulato di codesta misera e, in certo senso, rispettabile furbiciattoleria di borghesuzzi a ventre vuoto germinò l’entusiasmo iperbolico scenicamente ululato di borghesi a ventre pieno: entusiasmo per il ku-ce, entusiasmo per l’arrosto.
I radiosi destini del pollo in aureola di parole senza luce: il pollo aureolato funzionà da croce di Costantino al Ponte Molle: fu il segno di un avvenire indefettibile, garantito dal ku-ce. «In hoc signo vinces,»
La nulla educazione, l’appetito sempiterno e zefiro e zefirucci gradevolmente serpolanti tra intimine e delicatissime cosce nei ferragosti assetati operarono il miracolo del ridare un fiato effimero al morto, un barlume di gastrofagica speranza a secolare abulia.
E tutto si conchiuse in una fede e la fede in una formula:
«Che sarebbe mai la nostra povera Italia senza quell’omo! Vie’ a mmagnà, Zefirì, ch’è pronto. Viette a strozzà, Zefirì, si no se fredda.»
No, non voglio irridere a quelle sciagurate moltitudini di denutriti e di malarici aspiranti statali (AAAAA statale distintissimo bella assolata affittati, fine pensione. Via del Gelsomino 119-B piano ultimo. Escluse donne) che dalla superpopolata affocata terra di fuori venivano chiedere un pane da deglutire e un affitto da pagare con o senza fine pensione all’Urbe. Urbs Caput Mundi o anche più su alla
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metropoli lombarda detta anche Milano, Nemmeno vo’ irridere a quegli altri poveri cristacci furmatori di mezza sigheretta alla volta che non potendo sublimarsi statali si contentarono di appollaiarsi parastatali a fare paglia, negli uffici e ne’ ministeri infiniti. Non vo’ irridere alle lor donne, a cui devo per dovere civile tutto il mio rispetto di essere umano, con la simpatia di chi ha del pari sofferto nella sua carne, e in quella fraterna: e incontrato del pari disperati giorni e anni e umiliate lacrime e fame.
Voglio dire che il fallòs, ben conoscendo che chi ha fame non adora più lui, ma piuttosto il fornaro, si studiò convitare agli uffici inutili e alla misera mensa le multitudini de’ foranei (nel mentre ululava avverso l’inurbamento); dando loro intendere ch’egli aveva in giurisdizione e balia propia, che dico aveva mancipio d’ognuna mano Cerere e Pale, ano contare Mercurio; sicchè il ripartitore del pubblico denaro era lui, e il mietitore degli universi frumenti.
Lui Sovrano seminatore e trebbiatore pometino. Il beneficiente solo era lui. Il fondo aureo e le carrafabulanti farfallazze della Bankitalia erano venuti da lui. La idrovora e l’alternatore e la trebbiatrice erano in lui. La mucca milanese la mungeva lui. Quella mucca, che più la mungono, e meglio si sente. Anzi era lui la mucca. Vo’ vu’ direte: il problema dello sfamare il popolo italiano, cioè i quarantaquattro gloriosi milioni che tirano quotidianamente la carretta tra la rena de’ duo lidi e lo spelacchiato monte a Pennino e bestemmiano con incredibile turpiloquio il nome santo della Madre, detta altresì da taluni loro Maronna e seguitano rifigliare tra un cataclisma e ‘l seguente; il problema dello sfamare e del chetare al sonno de die in diem codesta maravigliosa popolazione italiana che fatica e ansima un po’ pertutto e s’industria al meglio, codesto problema è angoscia antica e perenne, che si propone a qualunque reggitore della Italia. Ma non il dèspota statolatra lo risolvette, col vietate l’emigrazione, col macchinare la sua bambolesca scipionata.
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