Ma Saul Bellow è noioso?
E' considerato un grandissimo del Novecento e ha vinto anche il Nobel per la Letteratura. Ma in libreria non se lo fila più nessuno. Per capirne i motivi, bisogna ricordarsi quello che ha detto Nino D'Angelo a Sanremo
Una delle prove che ogni tanto fornisco a me stesso di non essere diventato matto è la tenacia con cui mi ostino a darmi torto da solo. Non c'è cosa di cui sia certo che resista al vaglio di una più attenta e capillare dissacrazione.
Temo dipenda dall'educazione che mi è stata impartita. Non ricordo un solo contenzioso in cui mi sia trovato - con un'istituzione, con un amico, con una donna - in cui i miei genitori abbiano preso le mie difese. Non avere mai ragione era la cosa che mi veniva meglio. E, d'altro canto, darmi torto ad oltranza era per loro una specie di missione pedagogica. Che, a giudicare dall'uomo irresoluto in cui frattanto mi sono trasformato, ha dato i suoi frutti. Per esempio, molto spesso avverto che gli impulsi che mi riempiono il cuore - che so nostalgia, speranza ma anche rimpianto, indignazione - altro non sono che sentimenti sbagliati. Incrinature nella percezione. Qualcosa di cui sbarazzarsi con una scrollata di spalle. Ebbene l'articolo che mi accingo a scrivere non è che il tentativo di dare forma a quello che potrebbe essere il più sbagliato dei sentimenti. E il più duro da contrastare. Per la cronaca tale sentimento è stato suscitato dalla lettura (emozionante) di alcuni stralci di lettere di Saul Bellow pubblicate dal "New Yorker" qualche numero fa.
Non solo il mittente è d'eccezione ma anche i destinatari non sono niente male. Per non dire degli argomenti. Per esempio, c'è una lettera a Malamud in cui Bellow confessa che lui ce l'ha messa tutta "ad abbandonare Flaubert per andare verso Walter Scott, Balzac e Dickens".
A Faulkner che evidentemente gli chiede di firmare un appello per far uscire dal manicomio Ezra Pound, Bellow scrive con durezza esemplare: "Mi sta forse chiedendo di unirmi a lei per onorare un uomo che ha auspicato la distruzione dei miei consanguinei?". Philip Roth, invece, che si è sentito offeso da un commento non lusinghiero sfuggito a Bellow in un'intervista, viene così rassicurato: "Sei uno dei più grandi e interessanti scrittori americani". Come dicevo, ho letto tutto con grande passione. Era bello tenere gli occhi addosso a cose del genere. Occuparsene con ardore. Ecco uno scrittore - uno dei pesi massimi dello scorso secolo - che parla di Letteratura. Sì, un sommo scrittore che discetta di Letteratura con i suoi colleghi! Uno di quegli esercizi - di questi tempi sempre più rari - che un pervertito della mia specie apprezza immensamente.
Viviamo un'epoca in cui lo scrittore gode di troppo credito quando parla di cose che non lo riguardano e che proprio per questo ha smesso di occuparsi della sola cosa su cui dovrebbe pronunciarsi: libri. I propri e quegli degli altri. Con accanimento e con ironia (le due cose stanno benissimo assieme). Mentre mi dicevo queste cose sono stato aggredito alle spalle dall'angoscia. Bellow è morto, mi sono detto. E lo è in un modo molto più indecente di quanto si possa immaginare, ho chiosato.
Bellow appartiene a quella categoria di grandi scrittori a cui la morte non ha giovato un granché (a Salinger, a lui sì che ha giovato: la gente non si stanca di leggerlo). Povero Saul, non hanno fatto in tempo a seppellirlo che già se l'erano dimenticato. Non proprio dimenticato. Il verbo esatto è "imbalsamato". È diventato una sigla. Un pontefice di riferimento. Un nome da accoppiare a qualche altro scrittore ebreo per dire che nessuno è alla sua altezza, e che comunque non esistono più gli scrittori ebrei di una volta.
Per il resto Bellow non è più uno scrittore da leggerne.
Temo dipenda dall'educazione che mi è stata impartita. Non ricordo un solo contenzioso in cui mi sia trovato - con un'istituzione, con un amico, con una donna - in cui i miei genitori abbiano preso le mie difese. Non avere mai ragione era la cosa che mi veniva meglio. E, d'altro canto, darmi torto ad oltranza era per loro una specie di missione pedagogica. Che, a giudicare dall'uomo irresoluto in cui frattanto mi sono trasformato, ha dato i suoi frutti. Per esempio, molto spesso avverto che gli impulsi che mi riempiono il cuore - che so nostalgia, speranza ma anche rimpianto, indignazione - altro non sono che sentimenti sbagliati. Incrinature nella percezione. Qualcosa di cui sbarazzarsi con una scrollata di spalle. Ebbene l'articolo che mi accingo a scrivere non è che il tentativo di dare forma a quello che potrebbe essere il più sbagliato dei sentimenti. E il più duro da contrastare. Per la cronaca tale sentimento è stato suscitato dalla lettura (emozionante) di alcuni stralci di lettere di Saul Bellow pubblicate dal "New Yorker" qualche numero fa.
Non solo il mittente è d'eccezione ma anche i destinatari non sono niente male. Per non dire degli argomenti. Per esempio, c'è una lettera a Malamud in cui Bellow confessa che lui ce l'ha messa tutta "ad abbandonare Flaubert per andare verso Walter Scott, Balzac e Dickens".
A Faulkner che evidentemente gli chiede di firmare un appello per far uscire dal manicomio Ezra Pound, Bellow scrive con durezza esemplare: "Mi sta forse chiedendo di unirmi a lei per onorare un uomo che ha auspicato la distruzione dei miei consanguinei?". Philip Roth, invece, che si è sentito offeso da un commento non lusinghiero sfuggito a Bellow in un'intervista, viene così rassicurato: "Sei uno dei più grandi e interessanti scrittori americani". Come dicevo, ho letto tutto con grande passione. Era bello tenere gli occhi addosso a cose del genere. Occuparsene con ardore. Ecco uno scrittore - uno dei pesi massimi dello scorso secolo - che parla di Letteratura. Sì, un sommo scrittore che discetta di Letteratura con i suoi colleghi! Uno di quegli esercizi - di questi tempi sempre più rari - che un pervertito della mia specie apprezza immensamente.
Viviamo un'epoca in cui lo scrittore gode di troppo credito quando parla di cose che non lo riguardano e che proprio per questo ha smesso di occuparsi della sola cosa su cui dovrebbe pronunciarsi: libri. I propri e quegli degli altri. Con accanimento e con ironia (le due cose stanno benissimo assieme). Mentre mi dicevo queste cose sono stato aggredito alle spalle dall'angoscia. Bellow è morto, mi sono detto. E lo è in un modo molto più indecente di quanto si possa immaginare, ho chiosato.
Bellow appartiene a quella categoria di grandi scrittori a cui la morte non ha giovato un granché (a Salinger, a lui sì che ha giovato: la gente non si stanca di leggerlo). Povero Saul, non hanno fatto in tempo a seppellirlo che già se l'erano dimenticato. Non proprio dimenticato. Il verbo esatto è "imbalsamato". È diventato una sigla. Un pontefice di riferimento. Un nome da accoppiare a qualche altro scrittore ebreo per dire che nessuno è alla sua altezza, e che comunque non esistono più gli scrittori ebrei di una volta.
Per il resto Bellow non è più uno scrittore da leggerne.
Raramente mi capita di vedere i suoi romanzi ben esposti in libreria, né in Italia, né in Francia, né in America. Il che, avendo il marketing editoriale raggiunto su certe questioni una qualche spregiudicatezza, significa una cosa molto semplice: sono sempre meno i lettori interessati all'articolo. E la mia sensazione è che la maggior parte della gente che s'imbatte in un romanzo di Bellow abbia difficoltà a capirlo. Si annoi. E questo mi fa davvero soffrire (ci stiamo avvicinando al cuore del sentimento sbagliato).
Sono diverse le ragioni per cui Bellow si sta sempre più guadagnando sul campo la qualifica per nulla lusinghiera di "scrittore difficile".
Lasciate che ve ne dica un paio.
1. Bellow è uno scrittore senza messaggi. Uno che non ti dice come la devi pensare su niente;
2. Bellow è uno scrittore digressivo. Gli intrecci dei suoi romanzi sono a dir poco flebili. A lui piace intrattenerti con incantevoli divagazioni rapsodiche. Una volta confessò di sentirsi uno scrittore del '700 nato con qualche secolo di ritardo. Un tipo alla Diderot e alla Sterne per intenderci. Si dà il caso che il lettore medio contemporaneo provi fastidio per gli scrittori che non ti insegnano a campare e che non ti raccontino una bella storia piena di suspense.
Sono diverse le ragioni per cui Bellow si sta sempre più guadagnando sul campo la qualifica per nulla lusinghiera di "scrittore difficile".
Lasciate che ve ne dica un paio.
1. Bellow è uno scrittore senza messaggi. Uno che non ti dice come la devi pensare su niente;
2. Bellow è uno scrittore digressivo. Gli intrecci dei suoi romanzi sono a dir poco flebili. A lui piace intrattenerti con incantevoli divagazioni rapsodiche. Una volta confessò di sentirsi uno scrittore del '700 nato con qualche secolo di ritardo. Un tipo alla Diderot e alla Sterne per intenderci. Si dà il caso che il lettore medio contemporaneo provi fastidio per gli scrittori che non ti insegnano a campare e che non ti raccontino una bella storia piena di suspense.
Ecco in soldoni le ragioni dell'oblio che sta inghiottendo Bellow. Un oblio che certo non coinvolgerà l'Accademia né i cosiddetti "lettori forti", o per meglio dire fortissimi. Ma quelli un po' più deboli sì.
Su un bel pezzo di qualche tempo fa il maestro Gillo Dorfles, giunto lucidissimo ai cent'anni di vita, diceva che la cosa che ha imparato è che non c'è oggetto, anche il più orrendo, che prima o poi non rischi di diventare bello, e addirittura artistico. Una prova di quanto Dorfles abbia ragione mi è stata fornita dal cantante Nino D'Angelo: il quale, all'ultimo Festival di Sanremo, lamentava l'irrimediabile discesa della canzone popolare nella volgarità. Non credevo alle mie orecchie. Ma non era lui il principe del trash? Cosa diavolo succede? Nino D'Angelo, autore di film imbarazzanti, che ora si mette a dare lezioni di buongusto? Così va il mondo. Tanto più che il discorso di Dorfles funziona altrettanto bene al contrario. E cioè, anche il più eterno dei capolavori può invecchiare. Anch'esso può diventare muto. Il che non significa che smetta di essere capolavoro. Ma che si assottigli il numero di persone dotate della pazienza di mettersi lì a capirlo. Una cosa difficile da sopportare per chi ritiene, per dirla con Nabokov, che: "L'immaginazione priva di conoscenza non porta molto più in là del cortile dell'arte primitiva". E inoltre, una cosa difficile da sopportare per chi, come me, si irrita quando si imbatte in sentenze tipo: "Le storie non finiranno mai". "Gli uomini non si stancheranno mai di raccontare storie".
Si dà il caso che io delle storie me ne infischi, e di questa retorica dei cantastorie faccia volentieri a meno. Se penso agli scrittori che ammiro mi rendo conto che appartengono tutti alla categoria (assai fuori moda) dei divagatori: molto spesso le loro capacità narrative sono umiliate da un irriducibile desiderio di lasciarsi andare alla dissertazione. Amano perdersi per poi riprendere il filo quando meno te l'aspetti eppoi perdersi ancora. Proust, Lowry, Faulkner. I primi esempi che mi vengono in mente.
Prendete "Herzog", il più celebre romanzo di Bellow. È tutta una divagazione, è tutto un naufragio. Quando uscì vendette milioni di copie (letteralmente) in tutto il mondo. Oggi ti basta aprirlo per chiederti come sia possibile un simile successo. Certo, certo, gli anni '60 furono un decennio strano. L'arduo e il bizzarro andavano di moda non meno delle minigonne o delle zazzere. Pensate alla fortuna commerciale di dischi come "Sgt. Pepper" dei Beatles o "Pet Sounds" dei Beach Boys, capolavori del pop che oggi troverebbero assai meno acquirenti.
Insomma bando alle ciance. La parte di articolo che avete appena letto trasuda del sentimento sbagliato di cui evidentemente ho ritegno a parlare. Un cocktail agrodolce di nostalgia, senso d'ineluttabilità, trombonismi apocalittici. Scorie che non fanno onore all'intelligenza di chi le produce. L'idea che mi sono fatto è che la stupidità sia la condizione abituale del nostro cervello. Pensare in modo intelligente è una tale fatica che ogni volta devi metterti lì a lottare contro una pigrizia che è strettamente imparentata con la stupidità.
Per usare una bella espressione di Hannah Arendt, è molto più facile "pensare con il corrimano" che senza. Menomale che ogni tanto il cervello si costringe a qualche sforzo in più - uno scatto di reni. Nella fattispecie penso ai sommi scrittori che hanno avuto la sensazione che il mondo si stesse disgregando. Penso a Leopardi e alle sue nostalgie del mondo antico. Penso ad Adorno, a Pasolini, a Ceronetti, all'infinita schiera di catastrofisti. E vedo come tutti, nessuno escluso, sia stato smentito dalla storia. Figurarsi se la storia non si preoccuperà di smentire un pidocchio come il sottoscritto. L'arte non muore. Il desiderio di divagare è inesauribile. E tutto sommato non è necessario che Saul Bellow venga letto da milioni di persone. Basta che sia letto da chi ha voglia di farlo. Basta che sia letto da me.
D'altro canto a chi teme la prossima scomparsa dei libri cartacei, rispondo che le opportunità che gli e-book, nei prossimi anni, potranno fornire a chi fa il mio mestiere sono infinite. Ci si potrà sbizzarrire, infilare dentro al proprio libro materiali di ogni sorta: non solo fotografie come vuole la voga del momento, ma anche video, musiche, forse un giorno persino odori e chi più ne ha più ne metta. E a proposito di digressioni, ho appena finito di leggere "Il progetto Lazarus", un romanzo meraviglioso di Aleksandar Hemon, uno scrittore di Sarajevo che scrive in un inglese mirabile (mi è piaciuto al punto che mi impegno a parlarne più diffusamente le prossime settimane). Ebbene, mentre mi bevevo le sue frasi così ben tornite, mentre mi stordivo dei suoi salti temporali, dei suoi voli pindarici, delle sue elettrizzanti dissertazioni non facevo che ripetermi: ecco una scrittura moderna. Ecco la naturale evoluzione della scrittura bellowiana. E sentivo i muscoli della pancia distendersi come dopo un pericolo scampato.
P. S. In un breve autoritratto dello scrittore cileno Roberto Bolaño ho trovato scritto: "Sono molto più felice quando leggo che quando scrivo". In linea di massima potrei sottoscrivere questa massima. Se "L'espresso" mi pagasse solo per leggere e non per scrivere sarei un uomo felice. E tuttavia c'è un momento della giornata, quando vado a letto e abbraccio il cuscino e mastico con voluttà tutto quello che scriverò l'indomani mattina. Soffermandomi su una faccia, su una scena, su un colore, su una frase, su un avverbio... be' questo, ne sono certo, non morirà mai.
Su un bel pezzo di qualche tempo fa il maestro Gillo Dorfles, giunto lucidissimo ai cent'anni di vita, diceva che la cosa che ha imparato è che non c'è oggetto, anche il più orrendo, che prima o poi non rischi di diventare bello, e addirittura artistico. Una prova di quanto Dorfles abbia ragione mi è stata fornita dal cantante Nino D'Angelo: il quale, all'ultimo Festival di Sanremo, lamentava l'irrimediabile discesa della canzone popolare nella volgarità. Non credevo alle mie orecchie. Ma non era lui il principe del trash? Cosa diavolo succede? Nino D'Angelo, autore di film imbarazzanti, che ora si mette a dare lezioni di buongusto? Così va il mondo. Tanto più che il discorso di Dorfles funziona altrettanto bene al contrario. E cioè, anche il più eterno dei capolavori può invecchiare. Anch'esso può diventare muto. Il che non significa che smetta di essere capolavoro. Ma che si assottigli il numero di persone dotate della pazienza di mettersi lì a capirlo. Una cosa difficile da sopportare per chi ritiene, per dirla con Nabokov, che: "L'immaginazione priva di conoscenza non porta molto più in là del cortile dell'arte primitiva". E inoltre, una cosa difficile da sopportare per chi, come me, si irrita quando si imbatte in sentenze tipo: "Le storie non finiranno mai". "Gli uomini non si stancheranno mai di raccontare storie".
Si dà il caso che io delle storie me ne infischi, e di questa retorica dei cantastorie faccia volentieri a meno. Se penso agli scrittori che ammiro mi rendo conto che appartengono tutti alla categoria (assai fuori moda) dei divagatori: molto spesso le loro capacità narrative sono umiliate da un irriducibile desiderio di lasciarsi andare alla dissertazione. Amano perdersi per poi riprendere il filo quando meno te l'aspetti eppoi perdersi ancora. Proust, Lowry, Faulkner. I primi esempi che mi vengono in mente.
Prendete "Herzog", il più celebre romanzo di Bellow. È tutta una divagazione, è tutto un naufragio. Quando uscì vendette milioni di copie (letteralmente) in tutto il mondo. Oggi ti basta aprirlo per chiederti come sia possibile un simile successo. Certo, certo, gli anni '60 furono un decennio strano. L'arduo e il bizzarro andavano di moda non meno delle minigonne o delle zazzere. Pensate alla fortuna commerciale di dischi come "Sgt. Pepper" dei Beatles o "Pet Sounds" dei Beach Boys, capolavori del pop che oggi troverebbero assai meno acquirenti.
Insomma bando alle ciance. La parte di articolo che avete appena letto trasuda del sentimento sbagliato di cui evidentemente ho ritegno a parlare. Un cocktail agrodolce di nostalgia, senso d'ineluttabilità, trombonismi apocalittici. Scorie che non fanno onore all'intelligenza di chi le produce. L'idea che mi sono fatto è che la stupidità sia la condizione abituale del nostro cervello. Pensare in modo intelligente è una tale fatica che ogni volta devi metterti lì a lottare contro una pigrizia che è strettamente imparentata con la stupidità.
Per usare una bella espressione di Hannah Arendt, è molto più facile "pensare con il corrimano" che senza. Menomale che ogni tanto il cervello si costringe a qualche sforzo in più - uno scatto di reni. Nella fattispecie penso ai sommi scrittori che hanno avuto la sensazione che il mondo si stesse disgregando. Penso a Leopardi e alle sue nostalgie del mondo antico. Penso ad Adorno, a Pasolini, a Ceronetti, all'infinita schiera di catastrofisti. E vedo come tutti, nessuno escluso, sia stato smentito dalla storia. Figurarsi se la storia non si preoccuperà di smentire un pidocchio come il sottoscritto. L'arte non muore. Il desiderio di divagare è inesauribile. E tutto sommato non è necessario che Saul Bellow venga letto da milioni di persone. Basta che sia letto da chi ha voglia di farlo. Basta che sia letto da me.
D'altro canto a chi teme la prossima scomparsa dei libri cartacei, rispondo che le opportunità che gli e-book, nei prossimi anni, potranno fornire a chi fa il mio mestiere sono infinite. Ci si potrà sbizzarrire, infilare dentro al proprio libro materiali di ogni sorta: non solo fotografie come vuole la voga del momento, ma anche video, musiche, forse un giorno persino odori e chi più ne ha più ne metta. E a proposito di digressioni, ho appena finito di leggere "Il progetto Lazarus", un romanzo meraviglioso di Aleksandar Hemon, uno scrittore di Sarajevo che scrive in un inglese mirabile (mi è piaciuto al punto che mi impegno a parlarne più diffusamente le prossime settimane). Ebbene, mentre mi bevevo le sue frasi così ben tornite, mentre mi stordivo dei suoi salti temporali, dei suoi voli pindarici, delle sue elettrizzanti dissertazioni non facevo che ripetermi: ecco una scrittura moderna. Ecco la naturale evoluzione della scrittura bellowiana. E sentivo i muscoli della pancia distendersi come dopo un pericolo scampato.
P. S. In un breve autoritratto dello scrittore cileno Roberto Bolaño ho trovato scritto: "Sono molto più felice quando leggo che quando scrivo". In linea di massima potrei sottoscrivere questa massima. Se "L'espresso" mi pagasse solo per leggere e non per scrivere sarei un uomo felice. E tuttavia c'è un momento della giornata, quando vado a letto e abbraccio il cuscino e mastico con voluttà tutto quello che scriverò l'indomani mattina. Soffermandomi su una faccia, su una scena, su un colore, su una frase, su un avverbio... be' questo, ne sono certo, non morirà mai.